dal “Romanista”. Cappioli: «Io, allenatore in Cina, vi dico come hanno sconfitto il Coronavirus»
C’è un Cappioli che non è Massimiliano, ma gli somiglia molto, ed è altrettanto romanista e in più allena, e che in questi giorni può raccontarci diverse cose che potrebbero cambiare la vita a tutti noi, o comunque ce la possono far guardare sotto una diversa prospettiva. Questo Cappioli si chiama Claudio e al Romanista ha voluto raccontare la sua storia singolare, la storia di un cittadino italiano che ha voluto a tutti i costi tornare in Cina, contro il parere di quelli che gli vogliono bene, ai quali già oggi, a distanza di appena quattro giorni, può dire di aver avuto ragione. Claudio oggi può raccontarci come si vince quest’incredibile battaglia che stiamo vivendo in questi giorni perché da quelle parti, laggiù in Cina, la stanno vincendo, anzi forse l’hanno già vinta.
Ciao Claudio, alla fine hai avuto ragione te. Meglio lì che qui.
«Sì, probabilmente i fatti mi stanno dando ragione. Qui il problema sembra ormai alle spalle. L’altro giorno è stato il primo senza nuovi contagi in tutta la Cina».
Tu dove ti trovi esattamente? Sei vicino a Wuhan?
«No, sono lontano. Wuhan è sotto Pechino, io invece sono a Xining, al centro della Cina, spostato verso ovest, verso il Tibet».
E sei in quarantena obbligatoria preventiva.
«Sì, sono un potenziale untore, sono al quarto giorno da quando sono arrivato dall’Italia. Per fortuna la temperatura è sempre intorno ai 36, sto bene. Dovrò stare ancora dieci giorni così. Poi se tutto andrà bene finalmente uscirò. Qui il virus lo hanno battuto definitivamente e presto rientrerò su un campo per allenare, non vedo l’ora».
Già, ripartiamo dall’inizio. Tu sei il cugino del più famoso Massimiliano. Vi somigliate molto, sembrate fratelli.
«Siamo figli di due fratelli, Romolo e Remo, che hanno sposato due sorelle, Florinda e Teresa».
Lui è più grande di te, ma non avete mai giocato assieme.
«No. Lui è del ‘68, io sono del ‘73. Lui ha indubbiamente fatto una carriera migliore, ma dicono che io ero più forte, io giocavo col 10… Scherzi a parte, ho fatto la trafila del settore giovanile alla Roma, poi ho fatto la C a Cerveteri, poi ci furono dei fallimenti societari e girai parecchie squadre a livello dilettantistico, facendo esperienza e guadagnando i miei soldi. Poi ho cominciato ad allenare finché non ho aperto una scuola calcio con Massimiliano, che però, come sai, vive a Bali. A Roma veniva solo saltuariamente».
Sì, si gode la vita, giusto?
«Diciamo che ha delle proprietà lì e degli affitti a Roma. Sta bene così e oggi il calcio neanche gli interessa più tanto…».
Però insieme avevate questa scuola calcio?
«È ferma, diciamo che l’ho chiusa quando ho colto la possibilità di cambiare vita venendo in Cina».
Come è capitato?
«È stato casuale. Ho vari amici ex calciatori, tra i quali Totò Criniti, e grazie a lui ho conosciuto Maurizio Raìse (uno che era in campo con il Lecce nel giorno della sconfitta del 1986…), con lui abbiamo ipotizzato di creare una società. Il caso ha voluto che a novembre del 2018 un ex compagno di scuola di Maurizio lo abbia contattato per sondare la sua disponibilità ad andare a fare degli stage da allenatore in Cina, e lui ha detto di sì. A dicembre è stato richiamato, a febbraio di un anno fa è andato, ma dopo un mese è tornato a Roma, non si era trovato bene. Al posto suo è partito un altro nostro socio, Angelo Rinaldi, ex allenatore delle giovanili della Lazio, che adesso sta qui con me, abita due piani sopra di me. Lui si è trovato così bene che è riuscito a far venire anche me, e siamo a luglio scorso. Siamo stati a Pechino fino a dicembre, poi il direttore generale con cui abbiamo lavorato ha cambiato società e squadra, è venuto a lavorare qui a Xining e ci ha voluto con lui».
Il tuo ingaggio era come allenatore di settore giovanile.
«Settore giovanile in un college con una prima squadra in serie B. Io mi sono occupato dell’Under 15, Angelo dell’Under 13. Poi sono ripartito per l’Italia per la scadenza del permesso e sono tornato a settembre, fino a dicembre. E sono rientrato in Italia prima che si scatenasse l’inferno del virus».
Il virus è partito da Wuhan e si è esteso in tutta la Cina.
«Sì, ovunque. Ma loro hanno risolto come adesso siamo chiamati a fare in Italia».
Cioè?
«La gente è rimasta a casa un mese intero, con i droni che giravano per controllare che nessuno uscisse. Provvedimenti estesi a tutta la Cina, tranne in quelle zone in cui le alte temperature non avevano permesso al virus di attecchire. A Pechino c’è stato praticamente un mese di coprifuoco, sono ancora chiusi ristoranti e palestre. Anche se adesso la vita sta ripartendo».
E chi sgarrava?
«Qui nessuno sgarra. Ho letto addirittura in un articolo che chi avesse contagiato altri consapevolmente, e cioè non mettendo in atto le misure richieste dal Governo, rischiava fino alla pena di morte. Non dico di arrivare a tanto, ma questa linea della fermezza ha pagato. Da noi dovremmo fare lo stesso. Non c’è tempo da perdere».
Sei tornato adesso in Cina, ma quando è esploso il virus eri in Italia. Chi ti aggiornava?
«Il mio interprete cinese, lo sentivo spesso. All’inizio è stato dura, ma piano piano le cose hanno ripreso a funzionare. Tanto che sembrava che io potessi tornare già a fine gennaio, poi bloccarono i voli da e per la Cina (anche se in Italia si poteva arrivare passando per altri stati…), dopodiché la partenza è slittata a fine febbraio. Solo che non accettavano stranieri negli alberghi, tanto che per noi hanno trovato la soluzione di un appartamento che poi diventerà mio. Così finalmente sono riuscito ad arrivare».
E che cosa hai trovato?
«Intanto ho dovuto prendere tre voli per arrivare qui, passando per gli Emirati Arabi, poi da Abu Dhabi a Pechino e lì i controlli sono stati ossessivi: continue misurazioni della temperatura, colloqui, 4-5 questionari diversi. Poi da Pechino sono ripartito per un aeroporto vicino a Xining: a bordo avevamo posti alternati, ci hanno continuamente rilevato la temperatura, all’arrivo ci hanno visitato come se fossimo in una scena dei Ris».
E poi finalmente a casa.
«In isolamento. All’aeroporto mi hanno regalato 60 mascherine, qui abbiamo controlli a sorpresa di medici e poliziotti, sono già venuti due volte in quattro giorni, mi misurano la temperatura che io comunque ogni mattina devo comunicare via sms al mio interprete».
E se non ti trovano?
«Non lo so, ma io non sgarro. E chi si muove? Sto qui, in questo bell’appartamento, al 27° piano, attraverso due bei finestroni vedo che la gente ha ripreso a vivere, vedo tanti taxi che girano. Domani riaprono le scuole e riprendono tutte le attività sportive. L’altro ieri è stato il primo senza nuovi contagi».
Quanto dovrai stare chiuso?
«Due settimane, fino al 20 marzo».
E poi puoi finalmente riprendere ad allenare. In che lingua?
«Con la squadra in campo cerchiamo di capirci in inglese, ho un ragazzo in particolare che lo parla. Per altri discorsi ho ovviamente l’interprete. A Pechino era più facile perché altri ragazzi parlavano inglese, rimasi anche un mese senza il traduttore. Poi in campo ci sono parole universali…».
Perché hai deciso di tornare in Cina proprio ora? In molti te lo sconsigliavano.
«Sarò sincero. Avevo paura di perdere il treno. Io qui mi sono trovato talmente bene che non vedevo l’ora di tornare. E poi ero convinto che sarei stato meglio qui visto che in Italia tutto quello che hanno vissuto qui due mesi fa è cominciato adesso. Alla fine ho avuto ragione io, prima mi dicevano che ero matto a partire, ora mi scrivono per dirmi che ho fatto bene ad andarmene…».
Scusa la domanda personale, immagino che tu non abbia legami in Italia.
«Sono separato e non ho figli».
In Italia ad allenare nei settori giovanili si guadagna poco. Lì com’è la situazione?
«Ti dico sinceramente, io guadagno bene e praticamente non ho spese. Neanche per mangiare. Pago solo il telefonino. Vitto e alloggio è a carico loro».
E in questi giorni come fai a far la spesa?
«Me la portano gratis. Io devo fare solo la lista. Sto in quarantena, paga lo stato».
Il progetto calcio è preso in seria considerazione.
«Considera che entro il 2022 mi hanno detto che vogliono far nascere 1200 scuole calcio solo a Pechino. In Italia una squadra under 15 si allena due, massimo tre volte a settimana. Io qui non gioco ancora campionati, facciamo solo allenamenti, a Pechino ne facevo due al giorno tutti i giorni, ora solo al pomeriggio, ma tutti giorni: faremo amichevoli, e pare che presto con l’under 15 potrò fare anche un campionato».
Il patentino l’hai preso in Italia.
«Cominciai da giocatore/allenatore alla Crecas, a Palombara. Vincemmo il campionato di prima categoria, ma non avevo ancora il patentino. Poi ho fatto il corso e ho allenato al Bettini giovanissimi, vincendo un campionato. Poi Ciampino e San Lorenzo, vincendo un altro campionato provinciale, poi a Montespaccato ma non mi sono trovato bene e ho deciso di dedicarmi alla scuola calcio. Nel frattempo ho aperto un ristorante sempre con mio cugino che però non è andato benissimo, e poi ho cominciato a fare degli stage con altri ex calciatori finché non è capitata questa occasione».