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FINALE COPPA UEFA ’98: IL CAPOLAVORO DI SIMONI CONTRO LA SUA LAZIO…

Quella finale di Coppa UEFA fu particolarmente importante per diversi motivi. Importante per la Francia e il Parco dei Principi, innanzitutto, perché rappresentava la prova generale del Mondiale ormai alle porte. Ma anche per la Lazio, non solo perché era la prima in assoluto nella sua storia, ma perché sembrava l’atto conclusivo di un’era che avrebbe proiettato la squadra romana in un futuro radioso.  

Simoni fu costretto a fare a meno del capitano Giuseppe Bergomi e scelse per il ruolo di libero Salvatore Fresi, difensore utilizzabile anche a centrocampo. A completare la difesa schierata davanti alla porta difesa da Gianluca Pagliuca furono West, Francesco Colonnese e Zanetti. I quattro di centrocampo erano disposti a rombo, con Zé Elias da regista, l’ex biancoceleste Aron Winter mezzala destra, Simeone sul centro-sinistra e Djorkaeff trequartista. In attacco ovviamente Ronaldo, vicecapocannoniere della Serie A con 25 reti (dietro al solo Oliver Bierhoff, 27) a far coppia con Zamorano.

Eriksson doveva invece rinunciare a Boksić (che per un infortunio al ginocchio saltò anche il Mondiale), sostituito da Pierluigi Casiraghi e a Pancaro, che decise di rimpiazzare schierando da terzino destro Alessandro Grandoni. Con Marchegiani in porta, la prima linea del 4-4-2 era formata da destra a sinistra dal terzino dell’Under 21, Nesta, Paolo Negro e Giuseppe Favalli. Giorgio Venturin e Jugović erano i due centrocampisti centrali, con il capitano Diego Fuser largo a destra e Nedved a sinistra. Infine, in attacco Mancini agì da seconda punta alle spalle del centravanti Casiraghi.

La partita si sbloccò praticamente subito, con un lancio alto alle spalle della difesa di Simeone, lasciato senza pressione, destinato a Zamorano. Dopo aver compiuto una mezza finta, il 9 nerazzurro tagliò davanti a Negro (che probabilmente guardava solo la palla) e poté persino far rimbalzare la palla prima di colpire di controbalzo e superare Marchegiani.

L’errore di lettura della difesa della Lazio fu abbastanza netto, visto che non era posizionata né per attuare una trappola del fuorigioco, né per scappare all’indietro come sarebbe stato invece consigliato dalla situazione di palla scoperta, visto che nessuno dei centrocampisti si era staccato per disturbare il centrocampista argentino dell’Inter.

D’altra parte, sia l’Inter che la Lazio erano due squadre disabituate a difendere e attaccare in maniera posizionale e davano il loro meglio in transizione. Come ricordò Bruno Pizzul nella sua telecronaca, preferivano “giocare di rimessa”. Oltre al vantaggio nel punteggio, il gol al quinto minuto spostava l’inerzia tattica in favore la formazione nerazzurra, che poteva dunque costringere la Lazio a fare la partita e cercare di colpire in ripartenza. E infatti, dopo l’1-0, Simoni fu ben contento di lasciare il possesso palla (63% a 37%) agli avversari. 

Al di là dell’affidamento alle ripartenze, le due squadre erano però decisamente diverse, soprattutto nell’approccio difensivo dei due allenatori. Il sistema di gioco di Simoni era ancora fortemente influenzato dalla zona mista: oltre all’utilizzo del libero, le marcature a uomo applicate dai suoi erano rigide e a tutto campo. E in questo modo in fase di non possesso il modulo dell’Inter si scomponeva sul campo, e veniva determinato di fatto dalle posizioni degli avversari.

Senza palla, Fresi si posizionava dietro alla linea di difesa, con West che marcava a uomo Casiraghi, determinando subito uno scontro notevole sul piano fisico, con Colonnese che invece era impegnato su Mancini. Zanetti, fluidificante sulla sinistra, ingaggiò fin dalle prime battute il suo personale duello con Fuser sia in fase difensiva che offensiva, mentre su Nedved si allargava spesso Winter, lasciando Simeone e Zé Elias in parità numerica con i centrocampisti della Lazio.

Anche in fase difensiva lo schieramento dell’Inter era particolare: Winter – che forse oggi avrebbe potuto essere un terzino di ruolo – offriva una linea di passaggio larga, per poi convergere in dribbling verso il centro, mentre Djorkaeff si abbassava sul mezzo spazio di destra per bilanciare l’occupazione del campo.

Eriksson, invece, impiegava un 4-4-2 con la difesa a zona, utilizzando un blocco medio-basso in fase difensiva e senza esercitare un pressing particolarmente aggressivo sul portatore di palla avversario. Non mancavano momenti in cui la Lazio compattava le due linee da 4 per ridurre lo spazio a disposizione sul lato della palla, ma nemmeno quelli in cui l’allenatore svedese decideva di alzare la pressione. In queste situazioni un attaccante pressava il difensore avversario in possesso e l’altro a marcava l’opzione di passaggio più ravvicinata, mentre il centrocampo accompagnava preparandosi a intervenire sulle altre linee di passaggio, con l’obiettivo di forzare un passaggio rischioso o un lancio lungo.

In fase offensiva la Lazio era solita appoggiarsi molto al suo centravanti, in questo caso Casiraghi, ma anche l’Inter cercava ripetutamente Zamorano. Rivedere la quantità di lanci verso la punta di due squadre di alto livello fa un certo effetto e dà un’idea precisa di quanto avere un centravanti di ruolo fosse importante per quasi tutti gli allenatori dell’epoca. Il calcio di allora sembra quasi un altro sport.

D’altra parte, sia Zamorano che Casiraghi avevano probabilmente nel gioco aereo e nel colpo di testa la propria caratteristica principale, e anche in quella finale entrambi si resero protagonisti di un continuo duello con il proprio marcatore di riferimento, fatto di colpi di testa e di complicati controlli volanti. Il confronto tra i due fu però nettamente a favore del cileno, che vinse 6 duelli aerei su 10, mentre Casiraghi uscì vincitore solo 3 volte (33%), anche per via di un dominante West (7 duelli aerei vinti, 78%).

Se Casiraghi fungeva da riferimento offensivo, Mancini svariava su tutto il fronte offensivo, cercando la combinazione con Fuser o Neved, o in alternativa l’iniziativa personale con il dribbling o l’imbucata di prima intenzione per un compagno. A 34 anni, la classe dell’attuale CT della Nazionale era tutt’altro che sbiadita, ma, pur essendo secondo al solo Nesta per coinvolgimento nel gioco (117 tocchi), nel corso della gara fu spesso neutralizzato da un ottimo Colonnese, la cui prestazione fu una delle chiavi della vittoria dell’Inter.

 

Pur dovendo ribaltare il risultato e quindi gestire il gioco, la Lazio era una squadra costruita per giocare in verticale. Nesta (134 tocchi) e Negro (92), più di Venturin, erano i giocatori che controllavano il ritmo del gioco partendo dalla difesa, decidendo se accelerare con una giocata verso le punte o se smistare il gioco lungo la fascia.

Sulla fascia destra gran parte delle responsabilità di progressione del gioco dipendevano da Fuser, il laziale con più dribbling (4) e passaggi nell’ultimo terzo (23), che non mancava di percorrere tracce interne per appoggiarsi sul talento di Mancini, situazioni che potevano determinare un uno-due e il conseguente cross per Casiraghi, o attendere la sovrapposizione di Grandoni.

Nel corso della ripresa il terzino fu anche sostituito da Eriksson con il più offensivo Gottardi, forse per provare ad arrivare al cross con più costanza, visto che i movimenti di Fuser sullo spazio di mezzo attiravano il suo marcatore Zanetti e lasciavano sguarnito il lato sinistro della difesa dell’Inter, un lato sul quale sarebbe in teoria toccato a Fresi intervenire. In un paio di occasioni Grandoni aveva persino avuto il tempo di ricevere palla dietro la difesa, costringendo il libero nerazzurro a un’uscita disperata.

A sinistra, invece, Nedved cominciò da esterno spostandosi gradualmente sempre più dentro al campo, anche a causa della fastidiosa marcatura di Winter che in fase difensiva faceva praticamente il terzino destro, trovando in Jugović l’uomo ideale per compiere un movimento complementare ad allargarsi. Altra situazione potenzialmente pericolosa per l’Inter, ma non adeguatamente sfruttata, visto che soprattutto nel secondo tempo, quando l’intensità degli avversari era calata, i loro movimenti erano riusciti a scombinare lo schema di marcature a uomo di Simoni, prendendo in mezzo Winter e Zé Elias.

 

La Lazio era andata vicino al pareggio praticamente solo in chiusura di primo tempo, ma le marcature a uomo dell’Inter, che praticamente non aveva mai pressato affidandosi quasi totalmente alla sua superiorità nei duelli individuali, si erano dimostrate decisamente solide e più affidabili della difesa a zona di Eriksson.

La linea difensiva biancoceleste non era riuscita ad applicare la tattica del fuorigioco con gli automatismi necessari, concedendo un’altra occasione a Zamorano poco dopo l’inizio della ripresa, con Ronaldo abile a giocare a muro su Djorkaeff che con un lancio aveva messo il cileno in grado di bucare nuovamente Marchegiani. Ma in quell’occasione i biancocelesti furono salvati dal palo. 

A indirizzare definitivamente la partita fu però un raro gol di Zanetti, forse il più bello e importante della sua carriera insieme a quello in Inter – Roma nel 2007/2008: un destro al volo in corsa con il pallone che rimbalzava nella sua direzione, che concluse la sua traiettoria infilandosi al sette per il 2-0 dei nerazzurri.

Insomma, per come si era messa la partita, la Coppa UEFA era già virtualmente nella bacheca dell’Inter, ma mancava ancora la firma del suo fuoriclasse, che nel dicembre del 1997, ad appena 21 anni, aveva ricevuto a San Siro anche il suo primo Pallone d’Oro. Firma che puntualmente arrivò, quando al 70esimo fu servito dal subentrato Moriero sul filo del fuorigioco, lanciandosi con la sua iconica corsa verso il 3-0, conclusa depositando la palla nella porta vuota dopo aver dribblato anche Marchegiani.

La sua prima stagione all’Inter rimane senza ombra di dubbio quella più significativa della sua carriera in nerazzurro, che a partire dalla stagione successiva entrò inesorabilmente in una maledetta e interminabile spirale discendente che si concluse solo con il suo addio, dopo una serie di disgraziati infortuni che lo fermarono proprio quando sembrava essere destinato a prendersi tutto, a cominciare dallo Scudetto. I 90 minuti di Parigi sono esemplificativi di come Ronaldo fosse un unicorno prima degli unicorni, un attaccante completissimo con una rapidità di esecuzione pionerisitica che lo fece risultare letteralmente ingiocabile anche in Italia, dove negli anni ’90 c’era un’attenzione alla fase difensiva persino più ossessiva di quella che c’è oggi.

Ronaldo fu il fulcro dell’Inter in quella partita, risultando non a caso il giocatore con più tocchi (104) e quello più determinante nella creazione delle occasioni.  Il sistema dell’Inter di Simoni, indipendentemente dalle sue radici ideologiche, era costruito per massimizzare il talento futurista di Ronaldo, senza però determinare squilibri tattici o malumori nello spogliatoio. Un concetto che trascende le ere calcistiche e che rimane attualissimo anche nell’epoca dei “super team” e degli “unicorni”. E che spiega come il tecnico di Crevalcore sia rimasto uno degli allenatori più amati della storia dell’Inter, anche per il suo indubbio legame con Ronaldo. Che quella sera, oltre alla Coppa UEFA, vinse anche la scommessa di tagliare i capelli al suo allenatore, rasandolo a zero con la macchinetta.

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