EUSEBIO, LA PANTERA DEL MOZAMBICO CHE FECE GRANDE IL PICCOLO PORTOGALLO …
Il piccolo Portogallo degli incombenti anni Sessanta si attaccava coi denti a quei brandelli africani, fronteggiando una scarsa resistenza, che allora era solo agli albori, e perseguendo la pietosa bugia di una difficile integrazione, trapiantando nelle colonie religione, cultura, usi e costumi. E il fùtbol. L’unico campo in cui quel simulacro di integrazione funzionava davvero. I ragazzini negri o meticci copiavano il calcio dai colonizzatori e lo giocavano a piedi nudi nelle strade polverose o sulle spiagge della grande isola. E i talent scouts venuti dal continente dirottavano i più dotati verso i locali clubs calcistici che erano poi le succursali delle grandi squadre lusitane, pronte ad accogliere i migliori. E girarli poi magari alla Nazionale. Quella portoghese naturalmente, perché nell’ideologia corrente le colonie erano solo territori d’oltre mare, e gli abitanti cittadini europei, portoghesi in questo caso. Come detto, un sistema che funzionava. Per i più fortunati almeno.
Con Eusebio funzionò a meraviglia. Era nato a Lourenco Marques (oggi Maputo), sulle rive dell’Oceano Indiano, ultimo di otto figli, orfano di padre a cinque anni, cresciuto nella dura povertà che la madre poteva loro offrire. Il pallone lo calciava per strada, a piedi nudi per necessità, finché non entrò nello Sporting di Lourenco Marques, affiliato allo Sporting Club di Lisbona, che dunque lo considerava suo. Ma il Benfica lo sottrasse agli storici rivali con un colpo di mano pirata. Così a sedici anni Eusebio trasferì la sua vita nella Lisbona sonnolenta e un po’ magica raccontata da Pessoa e dal talento nuovo di José Saramago, e cantata, con la triste nostalgia del fado, dalla voce giovane di Amalia Rodriguez, nei locali fumosi e umanissimi della città vecchia, lungo le stradine tortuose che salgono e scendono su per i quattro colli lungo i quali la città si snoda affacciata sull’Atlantico.
Il giovane mozambicano non ebbe problemi di integrazione, ne calcistici né umani. Quella che era una finzione politica per lui era, e sempre più divenne una naturale realtà. Eusebio da Silva Ferreira era un giocatore del Benfica, cittadino portoghese, speranza fulgida di una nazionale che si affacciava per la prima volta alle grandi ribalte. Lo chiamavano “la pantera nera”. E ci fu un tempo in cui la “pantera” prese il posto della “perla nera” sul trono precario del football. Era il tempo dei mondiali d’Inghilterra.
Un piovoso luglio del 1966. E nel Goodison Park di Liverpool l’abdicazione avvenne in diretta intercontinentale e assunse l’iconografia plastica di Pelé in ginocchio, malamente ferito da un intervento assassino e lui, Eusebio, che si avvicina e, chinandosi, gli pone sul capo la mano in un gesto che offre conforto e silenziosamente chiede scusa per l’intervento duro del compagno. E’ la fine del terzo mondiale di Pelé, la fine del Brasile sconfitto 3-1 da un Portogallo alla sua prima esperienza in una fase finale di Campionato del mondo. Un Portogallo che passa di vittoria in vittoria grazie ai gol a ripetizione del suo negretto timido che stupisce il mondo per la velocità delle sue trame e la sicurezza e la pericolosità delle sue manovre d’attacco.
L’incoronazione del nuovo sovrano avviene qualche giorno dopo, il 23 luglio, in una notte di gloria e miseria. Perché in quella sera d’estate, nello stadio della patria dei Beatles solo il talento e la grinta di Eusebio trasformarono in trionfo il disastro, e dissolsero l’incubo giallo della Corea che, dopo aver inflitto all’Italia la sconfìtta più umiliante della sua storia, stava sommergendo 3-0 gli increduli lusitani. Poi avvenne il miracolo. Partendo dalla destra o dalla sinistra, retrocedendo fin sotto la propria porta a cercare il pallone, con la fretta disperata che lo svantaggio impone, Eusebio si lancia in avanti con quella sua progressione morbida, felina, che gli ha guadagnato l’appellativo di “pantera”, infila in velocità uno, due, tre avversari e poi lascia partire il tiro che ha secco, potente, preciso. Segna quattro volte, su azione e su rigore; e offre a un compagno la palla del quinto gol.
Alla folla piace chi segna, e il clamore del mondiale amplifica le gesta degli eroi della pedata, così il giovane mozambicano che «vibra por los goles», che «non ama discutere di tattiche, di posizioni, di piani per la battaglia», perché «a giocare e a segnare si diverte», viene di colpo considerato da tutti come più bravo di Pelé, più completo di lui, in possesso di un repertorio di gioco superiore, di più ampio respiro. Gli entusiasmi di un giorno illuminato dalla grazia e dal talento? Certamente. E infatti Pelé riprenderà presto il suo trono nell’immaginario collettivo.
Ed Eusebio, che proseguirà con la maglia del Benfica, la sua squadra di sempre, una carriera ricca di successi, ancora non lo sa ma ha raggiunto quella sera, nello stadio di Liverpool, il momento più alto della sua parabola di calciatore.
Aveva solo 24 anni, cinque anni di professionismo alle spalle, qualche scudetto e due Coppe dei Campioni strappate entrambe, nel 1961 e 1962, al Real Madrid di Puskas e Di Stefano, il primo stop al dominio continentale dello squadrone di Santiago Bernabeu. E se la prima volta lui era solo una riserva in panchina, giovane diciannovenne di belle speranze che aveva esordito in prima squadra solo otto giorni prima, il 23 maggio 1961, segnando tre gol all’Atletico di Lisbona, la seconda Coppa portava largamente la sua impronta. Era stata una dura battaglia, sul filo dell’equilibrio. Poi, mentre gli assi madridisti si spegnevano lentamente sotto il peso della fatica moltiplicata dagli anni, la stella del giovane Eusebio brillava nel cielo di Amsterdam, quel 2 maggio 1962, segnando, in finale di partita, i due gol che fissavano il punteggio su 5-3 e regalavano al Benfica la seconda Coppa dei Campioni. Altre due le aveva perse, nel ’63 e nel ’65, in finale contro il Milan di Altafini e Rivera e contro l’Inter di Herrera.
Perché Eusebio da Silva Ferreira è stato campione in un’epoca di campioni, ha sfiorato l’ultimo splendore dei Di Stefano, Gento, Puskas, Santamaria, ha giostrato nell’epoca dei Garrincha, Altafini, Suarez, Bobby Charlton, Beckenbauer, Rivera, Pelé, coetaneo di Zoff, Facchetti e Mazzola. Tutti quelli che, a suo dire, mancano al calcio attuale. E lamenta quella penuria che «al giorno d’oggi porta i tecnici a privilegiare il collettivo e il risultato». Lui, l’uomo che ha conquistato 11 scudetti, 5 Coppe del Portogallo, le suddette Coppe dei Campioni, 7 volte capocannoniere portoghese, Pallone d’oro nel 1965, Scarpa d’oro mondiale 1966, capocannoniere ai mondiali d’Inghilterra con 9 gol, 313 reti in 291 gare con il Benfica (una media di 1,08 a partita), 64 presenze in Nazionale e 41 gol (record portoghese), che appese le scarpe al chiodo nel 1975 per poi riprenderle e concedersi due anni di esperienza americana, prima di tornare a Lisbona entrando con mansioni varie nello staff tecnico del Benfica, senza mai vivere di ricordi, «perché questo non aiuta ad andare avanti, e i paragoni con me e i miei tempi non hanno senso».
Un tempo sognava l’Italia, diceva, e aveva firmato con Moratti un contratto che la chiusura delle frontiere decisa dalla federazione italiana dopo il disastro coreano rese vano (sempre la Corea sul suo cammino!), ha tifato Danimarca ai mondiali messicani del 1986, ammirato la Dinamo Kiev e il suo calcio da laboratorio, e professa illimitata ammirazione per Arrigo Sacchi «il migliore di tutti, un uomo nato per vincere». Gli schemi scientifici non c’entrano. E’ questione di personalità, «io questa gente la riconosco, appartengo alla stessa famiglia», e senti vibrare nelle parole l’orgoglio ingenuo della “pantera” che sfidava “O’ rei”. Perché ha un bell’aggiornarsi, ma dentro vive la convinzione profonda che «il calcio è sempre quello, e da che mondo è mondo lo fanno i calciatori. Uno come Pelé farebbe nel duemila quello che ha fatto fino al ’70, Idem Di Stefano, che per me resta il più grande, il più completo».
E lui, Eusebio da Silva Ferreira, il ragazzino venuto dalla salsedine dell’Oceano Indiano, sarebbe ancora Eusebio, l’artista che illuminava, con il suo talento, l’atmosfera sonnolenta e un po’ bigotta della Lisbona di Salazar.
La dittatura ora non c’è più, spazzata via negli anni “70 dalla “rivoluzione dei garofani”, quando i giovani ufficiali, molti provenienti dal Mozambico, misero fiori nei loro fucili suscitando quel crogiolo di entusiasmi e di speranze che ogni rivolta ideale porta con sé. Il Mozambico riacquistava l’indipendenza e si avviava alla costruzione di un incerto futuro, i legami con il nuovo Portogallo per nulla spezzati, troppo fitto l’intreccio di interessi economici culturali che la decolonizzazione si lascia dietro.
Eusebio, scelse di restare nella sua patria di adozione, senza suscitare riprovazione né scandalo. Perché lui è il Benfica. E la nazionale portoghese ha ancora bisogno di lui. E intanto si gode i complimenti del Capo dello Stato e le parole di Amalia Rodriguez, che rimpiange i suoi balzi felini e il suo talento. E la Lisbona che non è più, affogata dalla violenza nuova della modernità e da una povertà antica che sembrano aver sostituito la dittatura scomparsa e affogato le illusioni generose di una fugace primavera. Anche la saudade ha perso spessore, e Saramago è partito, sdegnato, in volontario esilio.
Eusebio intanto studia con coscienza e umiltà le nuove frontiere del fùtbol, poi entra la domenica allo stadio del Benfica per farsi applaudire sulle note del fado dalla massa di tifosi che vive di ricordi e di sentito dire, e con loro insegue sull’erba le immagini antiche di un calcio bailado che hanno la consistenza labile e il sapore acre della nostalgia…