LA PALLAVOLO DI SMARGIASSI E KILGOUR
Civita Castellana riusciva a mantenere alto il nome della tradizione e vedeva crescere – fisicamente e tecnicamente – un ragazzone che frequentava l’ultimo anno dell’Istituto industriale.
Lo conobbi per due motivi. Uno perché andammo insieme alla “settimana bianca” scolastica, a San Sebastiano di Folgaria, nel ’74. Eppoi perché giocò i campionati studenteschi, che io seguii e dei quali scrissi diversi articoli sui quotidiani viterbesi. Piccole cose, ma – come già detto più volte – totalmente inebrianti per un giovane alle prime armi dell’allora grande mondo del giornalismo.
Il ragazzone in questione era Pino Smargiassi, centonovantasei centimetri, nato per essere bravo in tutti gli sport. Fu la pallavolo, però, a farlo innamorare e spiccare il volo, partendo dalla sua Civita Castellana per approdare alla serie A. Aveva solo tredici anni quando degli osservatori di pallavolo passarono per caso mentre giocava nel campetto della Chiesa San Lorenzo. E capirono che aveva stoffa. Quanti sacrifici, però, quando scelse l’Ariccia. La mattina a scuola e il pomeriggio, via. Con il treno, direzione Roma, Palazzetto dello sport, per gli allenamenti. E la sera i libri per studiare.
Smargiassi si avvicinò a tutto ciò con timidezza, con la discrezione che lo contraddistingueva. Si inserì in punta di piedi nell’Ariccia, che aveva costruito una formazione piena di assi per una stagione memorabile, conclusa con il tricolore, giocando nel palasport romano di Viale Tiziano sempre gremito.
Voleva soprattutto imparare, ma trovò pure il proprio spazio in mezzo a tanti campioni, a Mattioli, Di Coste, Salemme, all’angelo biondo, lo statunitense Kirk Kilgour. Quel sestetto magnifico vinse ben venticinque gare su ventisei.
Un paio le andai a vedere anche io, fiero di essere amico di quel ragazzone con la maglia numero quattro. Il suo saluto prima della partita era per me un grande gesto, unico nel suo genere. Il resto lo regalava l’atmosfera che si creava attorno a lui e a quella squadra irripetibile.
Due volte nella vita, pensando agli amici-atleti, avevo avuto la chiara impressione di una coppia di “immortali”, che non si sarebbero piegati di fronte a nulla. Erano Giacomo Stramaccioni (anche lui della stessa altezza, che giocava con il medesimo rendimento sia a pallavolo che a basket) e Pino Smargiassi.
E invece si sono dovuti piegare entrambi ad una sorte avversa che li ha strappati alla vita, come una tempesta sradica due querce secolari.
E non fu molto fortunata neanche quella squadra, nel corso degli anni, visto che, oltre alla scomparsa di Pino Smargiassi, ha dovuto annoverare pure quella di Mario Mattioli e di Kilgour, quest’ultimo passato attraverso le sofferenze di anni in carrozzina, dopo essersi infortunato durante un allenamento.
Nel 2000, in Piazza San Pietro a Roma, al Giubileo degli Ammalati, fece piangere mezzo mondo, quando recitò questa preghiera.
“Chiesi a Dio di essere forte per eseguire progetti grandiosi: Egli mi rese debole per conservarmi nell’umiltà. Domandai a Dio che mi desse la salute per realizzare grandi imprese: Egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio. Gli domandai la ricchezza per possedere tutto: mi ha fatto povero per non essere egoista.
Gli domandai il potere perché gli uomini avessero bisogno di me: Egli mi ha dato l’umiliazione perché io avessi bisogno di loro. Domandai a Dio tutto per godere la vita: mi ha lasciato la vita perché potessi apprezzare tutto.
Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo, ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno e quasi contro la mia volontà. Le preghiere che non feci furono esaudite. Sii lodato; o mio Signore, fra tutti gli uomini nessuno possiede quello che ho io!”
Due anni dopo il suo cuore ha cessato di vivere e Kilgour ha raggiunto in cielo Pino Smargiassi, proprio quel ragazzo che gli “rubava il mestiere con gli occhi”, standogli vicino. In allenamento e in partita, in quella magica avventura.
DAL LIBRO “CARO SPORT, TI SCRIVO”