AmarcordIl Pallone

LO SCUDETTO DELLA FIORENTINA ’69

De Sisti si era definitivamente affermato come uno dei migliori registi d’Italia e la sua valutazione aveva raggiunto cifre astronomiche. Ben presto sarebbe diventato una pedina inamovibile della Nazionale. Poi, una vecchia volpe dell’area di rigore come Maraschi si era tolto lo sfizio di fare dodici reti, mentre Amarildo, pur mancando lungamente per infortunio, dimostrò di avere la stoffa del campione. In più c’era un giovane di appena ventuno anni, anche lui delle parti di Pisa, Luciano Chiarugi, soprannominato Cavallo Pazzo, che aveva diviso la tifoseria.  

In panchina Bruno Pesaola, che aveva già ottenuto buoni risultati allenando il Napoli. Occorreva però affrontare un’altra spinosa questione: le casse piangevano, e il risanamento del bilancio imponeva scelte dolorose e quantomai impopolari. Era tempo di tornare coi piedi per terra. Stava per essere inaugurata la politica del “due acquisti determinanti, tre cessioni importanti”, che si sarebbe rivelata vincente.

Nonostante i proclami di fine campionato, vennero ceduti al Cagliari Albertosi e Brugnera. La cosa non fu presa particolarmente bene, a Firenze. Insomma, Albertosi era già il numero uno della Nazionale, mentre per Brugnera, che pure nell’ultima stagione non aveva reso secondo le aspettative, si era addirittura parlato di un “nuovo Di Stefano”. Dall’isola giunse il solo Rizzo, che era comunque uno dei punti di forza dei sardi e sulle cui qualità non si discuteva. A destare maggior clamore fu invece il passaggio dell’intoccabile Bertini all’Inter per circa quattrocento milioni, una vera boccata d’ossigeno per le asfittiche casse viola. In più, furono acquistati il terzino Stanzial e i giovani attaccanti Mariani e Del Fabbro. All’ultimo si aggrego al gruppo anche Bertogna. Immaginate l’entusiasmo dei tifosi: al minimo storico… Al posto di Albertosi sarebbe stato lanciato in prima squadra il panchinaro Superchi, già chiamato a difendere la porta viola sette volte la stagione precedente.

Amarildo, rintanatosi in patria per le meritate vacanze, minacciava di non fare ritorno in Toscana se non in cambio di un congruo adeguamento del suo contratto. A fargli da procuratore, la temibile sorella Nicea, che riuscì a trovare un buon accordo con la dirigenza viola, che a quel punto, senza il fuoriclasse carioca, si sarebbe trovata in un mare di guai. Durante tutta questa vicenda, l’unico che mantenne la calma fu proprio il Petisso, che da bravo argentino conosceva bene questi giochetti tipicamente sudamericani: «Calma ragazzi, lasciatelo dire. Ho amici in Brasile, vedrete che Amarildo tornerà presto. E giocherà come finora non ha mai giocato in Italia». Tutto vero. Il “Garoto” giunse in Italia carico di un inaspettato entusiasmo. Così si rivolse al nuovo tecnico, appena sbarcato dal Sudamerica: «Eccomi qua, cerchi di trovarmi il posto adatto in formazione, poi ne vedrete delle belle». Amarildo non aggiunse altro: stava per disputare un campionato favoloso.

Eppure, il campionato cominciò nel peggiore dei modi, all’Olimpico contro la Roma, allenata dall’inutilmente corteggiato Herrera: Superchi fu infilzato da Taccola dopo appena venti secondi di gioco. Si imponeva una prova di carattere, che puntualmente arrivò: i viola non si scoraggiarono e nella ripresa riuscirono a ribaltare il risultato grazie alle reti di Amarildo e Maraschi. La squadra del Petisso stava cominciando, seppur lentamente, ad assumere la sua fisionomia. Ma i discreti risultati iniziali coincisero con una cronica assenza di gioco: si vinceva a fatica, magari grazie a un rigore dubbio. Come spesso accade, lo scossone che avrebbe dato la svolta coincise con una bruciante sconfitta. Alla quinta, il grave capitombolo interno col Bologna sbloccò i giocatori. Frustati nell’orgoglio, gli uomini di Pesaola trovarono il bandolo della matassa: da quel giorno non conobbero più battute di arresto. Proprio come tredici anni prima, la difesa si dimostrò l’arma vincente. Superchi era portiere di strepitosa agilità, davanti a lui spazzava l’area l’imponente Ferrante, coadiuvato dallo stopper Brizi. Ai lati, il mastino Rogora a destra e il fluidificante Mancin a sinistra. A centrocampo, lo stantuffo Esposito sosteneva la regia
dell’immenso De Sisti, mentre sul lato destro si dannavano a turno o Rizzo o Chiarugi; sulla trequarti, poi, trovava sfogo la genialità di Merlo. In avanti, la potenza di Maraschi e le saettanti intuizioni di Amarildo, campione finalmente ritrovato. Ma la galoppatta della Fiorentina non fu un monologo, si badi bene. Le sorti del campionato rimasero incerte fino all’ultimo, in un estenuante testa a testa col Milan di Rivera e il Cagliari di Riva. L’inserimento di Chiarugi, poi, tanto decisivo nel finale della stagione, fu tutt’altro che facile. Cavallo Pazzo non era certo tipo da farsi imbrigliare facilmente, nemmeno da un duro come Pesaola.

Ricco di talento e classe, sì, ma altrettanto indisciplinato, provocatore e attore: addirittura, in suo onore venne coniato il termine “chiarugismo”, a indicare la simulazione di falli inesistenti. “Bruno Nicotina” prima tentò con la carota, poi passò a un più affidabile randello: alla decima di campionato, contro il Napoli, l’8 dicembre 1968, lo sostituì con Esposito dopo un primo tempo irritante. Bene, il neppure ventiduenne Luciano non avrebbe rivisto il campo fino quasi a primavera. Sarebbe rimasto ad allenarsi duramente e a meditare sulle sue sventure. Tre mesi di esilio dalla prima squadra possono sembrare eccessivi, ma il Petisso alla fine l’ebbe vinta. Resosi conto di avere domato quel purosangue, decise di gettarlo nuovamente nella mischia. Il 9 marzo 1969, infatti, un irriconoscibile Chiarugi, completamente trasformato dalla cura, fece nuovamente capolino nell’incontro col Vicenza. Ebbene, Cavallo Pazzo fece due gol e da quel giorno non lasciò più la prima squadra. Anzi, l’avrebbe trascinata alla vittoria finale a suon di reti, con disciplina e senso tattico.

Ma i viola non poterono cantar vittoria fino alla penultima di campionato. Si giocava a Torino, sul campo della Juve, mentre il Milan, ultimo avversario nella corsa al tricolore, staccato di due punti, doveva vedersela in casa col Napoli il sabato. «Andate a vedere un bel western, non pensate ad altro. Io non vengo, sono un pò stanco, salgo in camera e faccio un bel sonno»: così disse Pesaola ai suoi ragazzi prima del calcio d’inizio del match-chiave di San Siro. Ovviamente il Petisso non si fece alcun sonno, e patì le pene dell’inferno con l’orecchio alla radio. Alla fine fu zero a zero, e nell’albergo dei viola si scatenò il più sfrenato entusiasmo. «E fatta! Domani, contro la Juve, se perdete vi accoppo!». «Perdere dalla Juve? Mister, lei è matto. Noi domani la Juve la facciamo secca!».

Così fu, due a zero per la Fiorentina, con reti di Chiarugi e Maraschi, un tripudio in uno stadio invaso da migliaia di supporter gigliati, un’ovazione di bandiere viola, per una festa rinviata troppe volte. L’ultima di campionato, col Varese, fu pura accademia; col tricolore ormai cucito sul petto, i ragazzi del grande Pesaola passeggiarono sui lombardi, osannati dal pubblico nel meritato trionfo. Era lo scudetto di Baglini e della sua avvedutezza, ma soprattutto del d.s. Montanari e di Chiappella, che fin dai primi anni Sessanta avevano inaugurato la stagione vincente della Fiorentina-Baby. E poi Pesaola, magistrale nel gestire l’irruenza di tanti acerbi campioni e a credere fin dal primo momento nell’impresa. Ma questa meravigliosa squadra, giovane e dalle grandi potenzialità, si squagliò nell’arco di una sola stagione.

 

 

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