Amarcord

CREATIVI FUORI IL CAMPO. ROBERTO BALDUCCI AL MICROFONO

Uno dei giocatori di maggior classe che abbia calcato il verde rettangolo della Palazzina, negli ultimi venti anni, è sicuramente Roberto Balducci, considerato un po’ l’anticonformista del gruppo, per le idee e i comportamenti fuori dal terreno di gioco. In campo no, assolutamente. Era giocatore di primissimo livello, il “gemello” di Omar Martinetti, insieme al quale aveva condiviso l’esperienza alla Pontevecchio di Serse Cosmi e – successivamente – quella in serie B all’Ancona.

Era il classico numero dieci, quello di una volta, il più ricercato, quando i numeri sulle magliette non erano legati al giocatore, ma alle singole partite.

Un ruolo da sempre attraente e affascinante, di solito interpretato dal giocatore più talentuoso, quello da cui tutti si aspettano la giocata vincente. Anche per Balducci è stato così. E’ stato calcio estroso, sgroppate palle al piede, passaggi deliziosi, calci di punizione vincenti.

E non poteva che essere uno come lui ad reinventarsi commentatore radiofonico, deejay d’assalto. Da “geometra pentito”, che aveva smesso di giocare, alla soglia dei quaranta anni, accusando tutta la nostalgia possibile di chi – come lui – aveva un rapporto quasi fisico con il pallone. Quelle sgroppate imprendibili al “Rocchi”, improvvisamente, hanno aperto uno spazio nuovo al suo estro, alla sua originalità, spostandosi, come d’incanto, dal campo di calcio al microfono di una emittente radiofonica.

Anche dietro a quel mezzo di comunicazione ci vuole creatività per emergere, soprattutto quando fanno capolino le incertezze, le stesse che talvolta si provano “dando del tu” ad una sfera di cuoio.

Non tutti hanno questa fortuna, di fare due volte nella vita la cosa che piace di più. Prima di tutto il calciatore, con enormi gioie e tanti sacrifici. A diciotto anni, ad esempio, il sabato sera, mentre i suoi amici uscivano, lui andava a letto, perché i doveri di un serio professionista lo impongono, anche se non tutti riescono a rispettarli.

A Viterbo fece cose eccelse e la gente si innamorò di lui: avrebbe voluto vederlo a lungo con la maglia gialloblu. Chissà se oggi Balducci potrà riconoscere, nel suo album di ricordi interiori, un pizzico di amarezza anche per non aver fatto durare di più la sua esperienza nella Tuscia. O di essere ritornato, come il suo “gemello” Martinetti.

Di sicuro ha un grande rammarico, quello di non aver mai giocato nel “suo” Perugia, contatto più di un volta mancato per un soffio. E’ rimasta una grande passione, evidentemente trasmessa al figlio, il quale, già dalla più tenera età, cantava “undici in campo che sembran cento…”, l’inno del Grifo.

Della vita da calciatore gli piaceva tutto. Il gusto di inventare calcio, di partecipare al collettivo. Dal punto di vista umano, invece, le grandi emozioni che fa provare quel calcio  che mette sempre tutto in discussione, che – in una sola domenica – può far cambiare l’umore e l’equilibrio, mettendo tutto in bilico. oscillando dal positivo al negativo. Lo spogliatoio è sempre stato per lui un microcosmo fantastico, dove si incontrano persone di tutti i tipi. Ognuna con le sue peculiarità.

“Non sopportavo l’ignoranza, l’incapacità di assumersi le responsabilità, il cercare di addossare ad altri le proprie colpe. Nello sport di squadra – è il pensiero dell’ex fantasista gialloblu – questo accade spesso. Eppoi non tollero la mancanza di sportività, ma queste son cose che mi fanno arrabbiare anche in ambienti extracalcistici.”

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