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“MONDINO” FABBRI, L’INTERVISTA DEL ’74 …

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— Per capire la polemica bisogna riandare ai mondiali, alla lezione che, secondo alcuni critici ne è seguita. Lei è uno dei pochi allenatori italiani che ha sentito il dovere di andare in Germania, no? Ma risulta che fu così gentile da rifornire la critica di delizioso Albana e Sangiovese delle sue terre.
«Ho portato il vino dalla Romagna perché in Germania costava troppo caro dato che il cambio lira-marco ci è sfavorevole. Per il resto non accuserei dì menefreghismo gli allenatori che sono rimasti a casa. Forse in televisione hanno potuto seguire meglio i mondiali di noi che eravamo a Monaco».

— Ma la televisione falsa la prospettiva, e limitandosi ai primi piani impedisce di seguire gli schemi.
«E’ vero, ma gli allenatori che hanno seguito i mondiali in poltrona hanno potuto vedere più partite».

— In Germania lei ha potuto verificare anche i sistemi di allenamento delle altre nazioni.
«No, perché le squadre quando sono arrivate in Germania avevano già completato la preparazione dì base. Ai mondiali si giocano due o tre partite alla settimana, ci si allena poco o niente: o meglio si cerca di mantenere la forma acquistata prima. Andare ai mondiali per vedere come si preparano le altre squadre sarebbe roba da ridere».

— Allora la spedizione in Germania è stato tempo sprecato…
«No, in una rassegna del genere c’è sempre qualcosa da imparare. Eppoi si possono fare delle verifiche».

— Cosa l’ha impressionata di più?
«Secondo me la sorpresa è venuta dalla Polonia che nessuno si attendeva così forte. Come collettivo mi ha impressionato la Scozia. Segna poco e non ha acuti. Però non bisogna dimenticare che è tornata a casa senza avere mai perso».

— Ma tutti sono rimasti impressionati dall’Olanda e molti stanno cercando di applicare il calcio totale anche in Italia. Lei che ne pensa?
«Io faccio notare che il titolo mondiale è stato vinto dalla Germania. E’ stata forse la squadra più criticata, ma è stata anche quella che più ha voluto vincere e che poi ha vinto».

— Meritatamente, secondo lei?
«Ha vinto con un gioco che è una via di mezzo tra il nostro e quello olandese».

— Bernardini è rimasto affascinato dall’Olanda e invita tutti gli allenatori italiani a giocare all’olandese. Lei ritiene che sia possibile?
«Tanto per cominciare occorrerebbe l’intenzione da parte di tutti. Poi non bisogna dimenticare che gli olandesi non si limitano a correre. Sono tutti dotati di un palleggio eccellente. E hanno anche una mentalità diversa. Noi siamo ancora abituati alla marcatura a uomo che in Olanda c’è e non c’è».

— Il modulo olandese…
«Prevede la disposizione tattica a zona. In difesa si sistemano quattro in linea e si alternano nell’inserirsi».

—E in Italia?
«In difesa abbiamo ancora una marcatura a uomo sulle punte avversarie. Il filtro zona-uomo avviene solo a centrocampo. Ma gli olandesi, come dicevo oltre ad avere una mentalità diversa posseggono anche un palleggio eccezionale e quindi a questo punto tutto diventa più facile. Ma la rapidità da sola non basterebbe. Per quanto riguarda l’Italia si tratta di vedere se è più conveniente giocare come loro oppure come la Germania che gioca un calcio con più discernimento e maggiore praticità».

— Il fatto che il Torino non imiti l’Olanda dimostra che lei ha già fatto la sua scelta.
«Anche perché ritengo che non sia facile imitare l’Olanda. L’Olanda in questo momento strabilia perché ha tanti fuoriclasse e perché tutti i giocatori sono fisicamente validi. E il fisico dei giocatori olandesi sembra più mostruoso anche perché rispetto agli italiani hanno il vantaggio di un minore consumo di energie nervose».

— Come sarebbe a dire?
«In Italia quando si va in campo si ha già consumato il 50% di energie disponibili. Da noi il calcio parlato logora più del calcio giocato. Ogni partita è un dramma. La stampa, anche per suscitare interesse sulle partite pubblica interviste a ripetizione. C’è una polemica dietro l’altra. L’attesa è sempre spasmodica. Tutte le partite diventano decisive. E quando si va in campo dopo aver parlato tanto, non si ha più birra».

— Quest’anno molti presidenti hanno voluto affiancare all’allenatore un preparatore atletico, perché si dice che per arrivare al calcio totale dell’Olanda, occorre anche una preparazione specifica.
«Io allora posso considerarmi all’avanguardia, perché il secondo anno della mia permanenza a Bologna feci assumere un maestro dello sport. Accolsi volentieri un invito del CONI e presi al mio fianco il maestro Nadalini, un ragazzo preparato ed entusiasta, che dimostrò notevoli qualità anche come osservatore e che ora è a Coverciano».

«…Riva non era ancora maturo. Ricordo ancora quando lo feci esordire a Budapest. Negli   pallone, perché le partite si giocano con il pallone, non bisogna diment à arrivare ai “colleges” anche per i giovani. Anche i giovani vanno curati, certo. Però non bisogna dimenticare che il primo dovere per un giovane è lo studio e chi non studia deve imparare un mestiere. Il calcio deve diventare un lavoro solo quando diventa effettivamente un lavoro, cioè quando il giovane diventa un professionista. Se si dimentica questo, il calcio diventa una fabbrica di spostati».

— Dicevamo che i maestri dello sport che escono dalla Farnesina spesso contestano voi allenatori…
«Ma a me risulta che certi preparatori troppo teorici dopo la partita tentano di portare i giocatori sul campo per una seduta defatigante, ma hanno dovuto rinunciarvi per l’opposizione dei giocatori stessi».

— Dicono che i giocatori sono stati abituati male dagli allenatori…
«Io dico, invece, che certe teorie sono valide solo sul piano della teoria. Dopo la partita un giocatore, per il dispendio di energie anche nervose, di cui dicevo prima, non si regge più in piedi».

— Mi sembra di capire che lei se la cava meglio senza preparatore atletico.
«Un allenatore deve applicare soprattutto il buon senso. Con il buon senso si risolvono tutti i problemi anche quelli che riguardano la preparazione atletica. E’ logico che ogni giocatore, richiede un allenamento specifico, in rapporto al suo fisico, ma con il buon senso un allenatore riesce a fare tutto».

— Giagnoni amava caricare i tifosi granata. Lei sembra quasi voler gettare acqua sul fuoco.
«Questo è un momento difficile non solo per il calcio ma per tutta la nazione. Si spara per niente. E’ nostro dovere far capire che si tratta di una partita di calcio. Si va allo stadio, non alla guerra».

— Certi allenatori hanno cercato di diventare personaggi: chi con le frasi roboanti, chi con il colbacco, chi portando il galletto in panchina, chi bevendo whisky. Lei ha sempre rifiutato il folclore. Perché?
«Perché ritengo che l’ambiente si carica solo se si vince. Quindi contano i fatti, non le parole. E secondo me, per ottenere i risultati bisogna soprattutto lavorare : non mi stanco mai di ripeterlo».

— Lei lavora anche nei campi…
«Certo. Perché non sono un parassita. E quando mi capita di essere disoccupato, mi rifiuto di stare con le mani in mano. Voglio essere d’esempio ai miei tre figli. Quando ho lasciato il Cagliari, sono tornato a Castelbolognese e sono andato nei campi a fianco dei contadini».

— A proposito: come coltivatore diretto si considera superiore a Oronzo Pugliese?
«L’Albana e il Sangiovese mi bastano solo per fare i regali a Natale. Con la terra oggi non si campa più. Ma io vado nei campi, soprattutto perché ritengo che il lavoro sia un dovere di tutti., Non posso fare l’allenatore? Faccio temporaneamente il contadino».

— Certi altri suoi colleghi…
«Lo so, preferiscono andare a cena con i giornalisti, diventano personaggi e sono sempre alla ribalta della cronaca. Ma io non sono fatto per le relazioni pubbliche».

— Forse per questo è durato poco alla Nazionale…
«Semmai alla Nazionale sono durato poco perché allora non c’erano le pubbliche relazioni. Lo staff è stato creato dopo, nell’epoca valcareggina, dopo certe esperienze fatte sulla mia pelle. Io ero solo».

— E spesso solo contro tutti…
«Ero anche troppo giovane e non ero nemmeno un allenatore da nazionale. Io ero un allenatore di club e un allenatore dì club non dovrebbe mai guidare la Nazionale. E non deve certo andarci un giovane. Un giovane va in un ricovero».

— Ha qualche rimpianto?
«Appunto di essere arrivato alla Nazionale troppo giovane e senza esperienza perché avevo guidato solo il Mantova. Ma qualcosa di buono penso di averlo fatto. Ho anche instaurato sistemi nuovi. Ad esempio sono stato il primo ad aprire al pubblico le porte di Coverciano per gli allenamenti della Nazionale. Prima Coverciano era considerato un tempio sacro e nessuno poteva profanarlo».

— Ma cos’è più difficile fare l’allenatore di club o guidare la Nazionale?
«C’è una differenza abissale. Con i clubs basta lavorare, con la Nazionale hanno fortuna solo quelli che la sanno lunga con i giornalisti».

— Valcareggi non parlava mai…
«Ma era circondato da tutto uno staff creato appunto dopo l’esperienza fatta sulla mia pelle. Io ero solo, in balia di me stesso. Forse però a Monaco lo staff era persino esagerato. Ho avuto l’impressione che intorno alla Nazionale ci fosse troppa gente, troppa gente che voleva fare la formazione della Nazionale».

— Forse se lei avesse avuto qualcuno a fianco a consigliare di includere Riva nella «rosa» ufficiale…
«Troppe volte avete scritto che ho portato Riva e Bertini in Inghilterra come turisti. Li ho aggregati alla comitiva proprio perché ero certo del loro futuro. Bertini aveva vent’anni ed era esploso solo nel finale del campionato. A Riva avevo preferito Pascutti perché avevo dato troppa importanza alla partita di Parigi, lo riconosco. Ma Riva non era ancora maturo. Ricordo ancora quando lo feci esordire a Budapest. Negli spogliatoi non riusciva nemmeno ad allacciarsi le scarpe per l’emozione. Se però non avessi creduto in Riva non l’avrei certo portato in Inghilterra a fare esperienza».

— La Corea del Nord rappresenta un punto base della sua carriera di allenatore. Lei tante volte ha detto: un giorno o l’altro andrò a Pyongyang per rivedere il meccanico dentista Pak Doo Yk. Invece passa sempre le vacanze a Castelbolognese e rinuncia al revival Corea.
«La voglia matta di andare a Pyongyang me l’hanno attribuita i giornalisti. A me la Corea non interessa. Appartiene al passato. E io voglio andare avanti».

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