IL MONDIALE ’70 DELL’ITALIA
Non fu semplice, per Valcareggi, la scelta dei ventidue per la fase finale. E fu, probabilmente, sbagliata, se è vero che a toglierlo d’impaccio ci mise una pezza la sorte benigna. Una delle prodezze più memorabili dello “stellone” del Ct si verificò alla immediata vigilia della partenza per il Messico, in maggio. I ventidue erano pronti, quando il centravanti titolare Anastasi, durante uno scherzo di spogliatoio col massaggiatore, venne colpito con involontaria durezza al basso ventre. La cosa sembrò esaurirsi con il dolore dell’interessato, senonché nelle ore successive vi si aggiunse un allarmante gonfiore a un testicolo. In ospedale venne sentenziata la necessità di un immediato intervento chirurgico (con conseguenti trenta giorni di convalescenza) per riparare alla banale torsione di un funicolo spermatico. Niente Messico, dunque.
Valcareggi, che a malincuore aveva escluso Boninsegna, si affrettò a cercarlo: il potente centravanti dell’Inter, fresco di matrimonio, si stava dedicando alla pesca e ovviamente non esitò a lasciare la lenza per preparare la valigia per il Messico. Dove sarebbe stato il migliore degli azzurri. L’occasione venne colta dal Ct per richiamare anche l’altro grande escluso dell’attacco, il milanista Prati. Avanzandogli a quel punto un uomo, fece cadere la dolorosa scelta su Lodetti, gregario di Rivera nel Milan. Così riveduta e corretta, l’Italia partì per l’avventura mondiale. A guidarla, un uomo destinato a far parlare di sè: Walter Mandelli, presidente del Settore tecnico, voluto da Franchi per “proteggere” il Ct, evitandogli la solitudine fatale a Fabbri nel 1966.
Attese modeste circondavano gli azzurri: dopo tanti fallimenti, si riconosceva che l’ingresso nei quarti, sempre mancato nel dopoguerra, sarebbe stato un risultato di grande prestigio. Giusto alla vigilia del debutto, esplose il “caso Rivera”, con pesanti dichiarazioni del giocatore contro Mandelli, considerato responsabile di una sua probabile esclusione. Accorse Franchi dall’Italia, a mettere il tutto a tacere con abile diplomazia.
Per l’esordio con la Svezia, Valcareggi escluse Rivera e al centro della difesa inserì il modesto Niccolai, stopper del Cagliari quasi esordiente, proteggendolo con l’innesto, nei panni di libero, del mediano Cera. Una intuizione geniale, quest’ultima, che gli avrebbe garantito, oltre a ottime chiusure difensive, la preziosa capacità di avviare il contropiede con lunghi lanci in verticale. Centrocampo robusto, con Bertini, Domenghini. Mazzola e De Sisti, attacco coi due “panzer”, Boninsegna e Riva. A quest’ultimo il Ct svedese Bergmark appiccicò l’armadio Olsson, che riuscì a neutralizzare il bomber, con la preziosa alleanza dell’altitudine (i 2.680 metri di Toluca erano micidiali per giocatori dalle larghe fasce muscolari). Dopo un palo di Boninsegna, un tiraccio di Domenghini dal limite sugli sviluppi di un calcio d’angolo portò l’Italia in vantaggio, col contributo del portiere Hellstrom, che in tuffo si fece sfuggire il pallone. Gli errori di Riva sottomisura caratterizzarono il resto della monotona gara. Valcareggi confermò la propria buona stella: un rude intervento di Kindvall mise fuori combattimento Niccolai, scelto a sorpresa come titolare (il suo allenatore Scopigno era sobbalzato davanti alla tivù: «Tutto mi sarei aspettato in vita mia, ma non di vedere Niccolai via satellite!»), e il Ct fu bravo a sostituirlo con Rosato, mediano destinato a dare il meglio di sè proprio come stopper.
L’Uruguay aveva regolato con due gol Israele nel proprio debutto a Puebla, logico il tacito patto di non aggressione nel confronto diretto tra italiani e sudamericani, in una partita di spaventosa pochezza tecnica. Il caldo torrido e l’altitudine costrinsero lo sfiancato Domenghini all’abbandono alla fine del primo tempo; Valcareggi lo sostituì col debuttante Furino. L’Italia si era svegliata di notte, causa fuso orario, per seguire la partita in diretta televisiva: solo i più temprati riuscirono a resistere al soporifero spettacolo.
Il contemporaneo pareggio della Svezia con Israele rendeva sufficiente all’Italia un pari nell’ultima partita. E pari fu, di nuovo senza gol. La perfetta tenuta della difesa, comandata da un eccellente Cera, il palo colpito da De Sisti dopo otto minuti, il gol annullato a Riva per un fuorigioco quasi inspiegabile furono le “perle” del primo tempo. Nell’intervallo Valcareggi sostituì Domenghini con Rivera, invocato dai tifosi italiani presenti.
Un cronista belga commentò: «L’Italia non è una squadra, è una cassa di risparmio!»: con un solo gol aveva colto quattro punti e il primo posto nel girone. Atteso come il più terrificante bombardiere del Mondiale, Riva, logorato dalla stagione monstre dello storico scudetto del Cagliari, tormentato da problemi sentimentali e sfiancato dall’altura, si era distinto più che altro per gli impacci nel palleggio e gli errori di mira.
La consapevolezza dei proprio valore l’Italia la conseguì nei quarti, dove le toccarono i padroni di casa del Messico. La prima frazione di gioco fu tutt’altro che entusiasmante, i messicani vi esercitarono un predominio iniziale, sospinto dal tifo e culminato nel meritato vantaggio di Gonzalez, favorito da una scivolata di Rosato. Il pari arrivò su gran tiro di Domenghini, maldestramente deviato nella propria rete da Pena. Nell’intervallo Valcareggi pronunciò la parola magica (staffetta) e il Mondiale azzurro cambiò. Rivera subentrò a Mazzola, con effetti dirompenti: lanciato da un suo delizioso servizio, Gigi Riva si sbloccava, insaccando a fil di palo un potente diagonale di sinistro. E poi lo stesso Rivera, su un’insistita azione personale (dopo due respinte di Calderon) raddoppiava. Qualche minuto prima, una provvidenziale ribattuta del superbo Cera sulla linea aveva scongiurato il pareggio di Pulido. Infine, nuova invenzione in verticale di Rivera per Riva, che in area si liberava al tiro e infilava.
Il regolamento della Coppa Rimet ne prevedeva l’assegnazione definitiva alla nazione che per prima fosse riuscita ad aggiudicarsela per tre volte. Il fatto che ai quarti di finale fossero giunte tutte e tre le pretendenti (Brasile, Italia e Uruguay), oltre alla Germania che ugualmente vantava il trofeo nel proprio passato, costituiva la dimostrazione dell’alto valore tecnico della manifestazione. Gli incroci del tabellone prevedevano uno scontro Europa-Sudamerica in finale. Così, mentre il Brasile faceva a pezzi l’Uruguay, dopo aver a lungo faticato per violarne il bunker difensivo, l’Italia all’Azteca di Città del Messico affrontava i temibili tedeschi.
Valcareggi mandò in campo gli stessi uomini dei quarti. Boninsegna dopo otto minuti sbloccò il risultato dopo un triangolo con Riva innescato da De Sisti. Il piano tattico classico dell’Italia sparagnata poteva attuarsi. Chiusi in difesa, gli azzurri respinsero gli assalti, armando pericolosi contropiede. Nella ripresa, la ormai classica staffetta Mazzola-Rivera non sembrò produrre vantaggi: l’interista era stato tra i migliori nel primo tempo, frenando Beckenbauer, il successore indeboliva l’azione di filtro e i tedeschi avanzavano a folate, potenziati in attacco dall’innesto di altre due punte, Held e Libuda.
Finì in un assalto a fort Apache, con gli italiani arroccati senza più la forza per tentare reazioni. Una dura spallata di Rosato costrinse Beckenbauer col braccio appeso al collo, su un salvataggio volante sulla linea dello stesso difensore italiano Müller fallì a porta vuota. Quando sembrava fatta, Schnellinger, alfiere del Milan, nel primo minuto di recupero intervenne in spaccata su un cross da sinistra, infilando Albertosi. Affranti, i ventidue si rovesciarono sull’erba, divorati dalla stanchezza.
L’esaurimento delle energie fu alla fonte dei colpi di scena dei supplementari. Tedeschi in vantaggio con Müller (con la complicità di un malinteso tra Poletti, subentrato allo sfinito Rosato, e Albertosi); pareggio di Burgnich su punizione di Rivera goffamente respinta da Held; ancora avanti l’Italia con Riva, che bissa il secondo gol al Messico, saltando un difensore, fingendo di allargarsi sul fondo e improvvisamente battendo a rete in torsione col sinistro; su calcio d’angolo, Seeler appoggia di testa a Müller, che ancora di testa schiaccia debolmente a rete, dove Rivera, finito sulla linea, anziché respingere («Tua!» gli grida Albertosi), si scansa.
Tutto finito? No: lo stesso Rivera riparte in avanti e sul traversone rasoterra da sinistra di Boninsegna si corica impercettibilmente ingannando Maier, che vola a sinistra, mentre il pallone calciato al volo dal golden boy si infila beffardo nell’angolo destro. Al fischio finale, Domenghini viene portato fuori semisvenuto. Sulle gradinate, la gente è in delirio, le autorità calcistiche messicane decideranno di murare una targa nello stadio Azteca. a perenne ricordo di una partita così entusiasmante. A migliaia di chilometri di distanza, immerso nella notte, un intero Paese vive per le strade una rumorosa festa collettiva senza precedenti. Dopo trentadue lunghissimi anni, l’Italia è di nuovo in finale.
Comunque fosse andata, la Coppa Rimet sarebbe stata assegnata definitivamente. I favori del pronostico erano tutti per il favoloso Brasile di Pelé e Tostão. Ora, è utile soffermarsi sulla situazione degli azzurri, per comprendere la preoccupazione che incupiva Valcareggi alla vigilia della partita. L’Italia si era arrampicata fino al tetto del mondo governando, un po’ col caso un po’ a colpi di buon senso, una situazione esplosiva. Il dualismo Mazzola-Rivera aveva spaccato in due lo spogliatoio: difensori e centrocampisti erano favorevoli all’interista (che garantiva maggiori aiuti in copertura), mentre gli uomini dell’attacco per nulla al mondo avrebbero rinunciato alle geniali aperture del milanista. Nello stesso settore offensivo mirabilmente coabitavano due rivali “storici” come Boninsegna e Riva, i cui problemi di convivenza tecnica nel Cagliari erano stati risolti solo con la partenza del primo per Milano.
Del famoso “gruppo” di altre future occasioni, insomma, c’era poco più che un’ombra, mentre lo schieramento tipo era nato sull’onda di emergenze assortite. L’equilibrio raggiunto correva sul filo sottile della “staffetta” Mazzola-Rivera. Fosse stato per le sue convinzioni, il Ct avrebbe rimescolato le carte: si giocava tre giorni dopo il massacro fisico contro la Germania, già due anni prima aveva vinto la ripetizione della finale europea intervenendo col bisturi sullo schieramento. Senza contare il rischio di appagamento, complice lo stratosferico ammontare dei premi incamerati fino a quel punto dai prodi azzurri: venti milioni a testa, una cifra iperbolica (più di 250 milioni di oggi), frutto delle allegre promesse di inizio avventura. Ma come andare a toccare quel piccolo capolavoro? Su quelle tormentate ore della vigilia, in cui si decise di abbandonare la “staffetta” nella circostanza decisiva, l’Italia si giocò la finale. Dall’altra parte della barricata, la vigilia scorse invece tranquilla.
Al fischio iniziale del tedesco orientale Rudi Glöckner, i verdeoro avviarono la loro danza flessuosa, interrotta qua e là dal rapido controgioco degli azzurri. Poi, l’equilibrio si ruppe: sua maestà Pelé ripetè la prodezza cui nel primo turno solo “la più grande parata di tutti i tempi”, di Gordon Banks, aveva negato il gol. Rivelino da sinistra al volo gira in cross una rimessa laterale di Tostão e la perla nera si issa quasi mezzo metro oltre un saltatore come Burgnich e da lassù schiaccia il pallone inchiodando Albertosi. Una prodezza atletica così descritta da Gianni Brera: «Quando poi si tratta di staccare di testa, o rey dà la strana impressione di essere già appeso all’alto ramo di un mango: e di mollarsi curiosamente in basso anziché salire».
Gli azzurri arrivano presto al pareggio: un malinteso tra Everaldo e i compagni della difesa dà via libera all’irrompere di Boninsegna, che anticipando Riva infila di sinistro Felix fuori dai pali. Al predominio territoriale del Brasile gli azzurri rispondono con saettanti contromanovre che disturbano il gioco auriverde. Il pari all’intervallo sembra foriero di buone prospettive per l’Italia. Alla fine dell’interminabile sosta, però, dagli spogliatoi non compare Rivera. Niente staffetta, niente vittoria.
L’equilibrio dura ancora una ventina di minuti, poi le forze cominciano a mancare agli uomini di Valcareggi e quando il loro scatto si appanna, il Brasile si avventa ad azzannare la preda. Rivelino colpisce la traversa, poi Gerson, al culmine di un triangolo con Jairzinho, infila Albertosi dalla distanza. Dalla panchina azzurra non arriva alcun segnale. È la resa. Punizione di Gerson, schiacciata di testa di Pelé per Jairzinho, che anticipa Albertosi in uscita e insacca. Tre minuti dopo, Valcareggi richiama Bertini per inserire Juliano. Infine Pelé riceve da Jairzinho e smarca sulla destra l’avanzante Carlos Alberto che fucila Albertosi.
A quel punto, già da due minuti Rivera ha fatto il suo ingresso in campo in luogo di Boninsegna: una specie di beffa che dura sei minuti e poi si prolungherà nel tempo come uno dei grandi motivi di discussione dell’intera storia dei Mondiali. Mentre in Italia la gente impreca davanti al televisore, preparando il terreno alle contestazioni che saluteranno il ritorno in Italia di Mandelli e dei giocatori, Pelé alza al cielo la Coppa Rimet, la “Vittoria alata” realizzata da Abel Lafleur che diventa definitivamente brasiliana. La Coppa premia la squadra più forte, una parata di stelle straordinarie cui Pelé, unico di tutti i tempi a vincere tre Mondiali, ha posto il sigillo di una classe infinita.