UNA RADIO IN PAESE NEL 1934: «HA VINTO L’ITALIA!»
«Lu-pi, lu-pi, lu-pi, unò-duè, unò-duè, unò-duè, lu-pi, lu-pi…». Proveniente dal campo sportivo, la fila dei balilla stava fiancheggiando il grande castello medievale che domina Sanguinetto, il mio paese veneto. Ignoro che cosa volesse dire esattamente il «lu-pi, lu-pi» che apriva la serie dei comandi per farci marciare in riga, ma so che lo si usava e magari alludeva ai due neonati che succhiano le mammelle della lupa romana. Allora, per la verità, il fascismo non aveva ancora inventato i «figli della lupa» per i bambini al di sotto dei sei anni. Forse nel «lu-pi, lu-pi» c’era un po’ di vaticinio, parola che sembrava più carica di destino (anzi, più «fatidica») della banale profezia. Per Roma stessa, del resto, si preferiva il più solenne Urbe.
Marciavamo, dunque, sul fianco del castello. Era terminato da poco il saggio ginnico dell’Opera Nazionale Balilla. Per motivi che presto saranno evidenti, ricordo con precisione la data: domenica 10 giugno 1934. Per la prima volta, gli esercizi erano stati guidati, anziché attraverso il rudimentale cono di un megafono, con un microfono.
Un microfono «piezoelettrico», era stato precisato con altezzoso sfoggio, del modernissimo aggettivo. Un microfono identico a quello che usava il Duce per far sentire la sua voce «maschia e vibrante» al popolo delle adunate oceaniche.
Nonostante il «lupi-lupi» e l’«unò-duè, unò-duè», la nostra marcia non era marziale: colpa delle scarpette di gomma, obbligatorie per il saggio ginnico ma assolutamente inadatte a far risuonare i passi sul selciato. Il nostro caposquadra (credo fosse Maggiorino C., un amico che oggi non c’è più) si guardò bene dal comandare il triplice «passo-ò», seguito dal perentorio «cadenza-à», che consisteva in due isolate battute del piede sinistro e in una successione di sinistro-destro-sinistro. A togliere ogni aspetto guerresco alla scena contribuiva anche la «tenuta da ginnastica»: niente fez, né camicia nera, né pantaloni di panno grigioverde, né mostrina da balilla moschettiere, ma calzoncini neri di tela e maglietta bianca di cotone, con sul petto la sigla O.N.B.
Il nostro passo non era marziale: colpa delle scarpette di gomma La mia testa era altrove, a cinquecento chilometri di distanza. E invano Maggiorino C. intonò, tra un «lu-pi, lu-pi» e l’altro, l’inno dei balilla: «Fiero l’occhio, svelto il passo». Fingevo di cantare, muovevo la bocca, ma le parole che avrei voluto dire non erano quelle sul «ragazzo di Portoria / che sta gigante nella storia». Volevo fare una domanda, una sola: sapere com’era andata la finale del Campionato del Mondo di calcio, che proprio quel 10 giugno 1934 si era disputata a Roma, allo Stadio del Partito, tra Italia e Cecoslovacchia. L’incontro doveva essere terminato perché si annunciava la sera, qualche refolo d’aria veniva dai campi a mitigare il caldo, don Antonio R. aveva già fatto rintoccare la solitaria campana del vespro.
Allora, a Sanguinetto, c’erano soltanto tre radio, tutte appartenenti a privati. Mio zio Agenore R., titolare del cinema chiamato Politeama, era uno dei tre fortunati e per certe occasioni appoggiava, su una finestra al pianterreno della sua casa, un altoparlante collegato all’apparecchio. Sicuramente, aveva deciso questa prodiga concessione anche per il Campionato del Mondo, lasciando ascoltare ai tifosi che stavano in strada la voce, rauca e già mitica, di Nicolò Carosio. Il saggio ginnico mi aveva impedito di avere un trattamento di privilegio. Come nipotino, sarei stato ospitato in casa, attaccato all’apparecchio.
Finalmente vidi la persona in grado di darmi la risposta che cercavo. Appoggiato al muretto che cinge il fossato intorno al castello, stava Luigi V., il capitano dei neroverdi del Sanguinetto, terzino «di posizione» secondo la terminologia calcistica di quei tempi, conosciuto come «Biii» con una serie anche più numerosa di «i»: soltanto uno che fosse esperto di dialetti veneti e di leggi fonetiche avrebbe potuto esattamente calcolarle.
Fui fortunato. Il caposquadra diede l’alt perché dovevamo lasciar passare le autorità, i maestri delle elementari e i giovani fascisti che, con il semplice aiuto del dito mignolo, riuscivano a tenere alte le aste dei gagliardetti. In posizione di «attenti», mi trovai a un paio di metri da Luigi V. che certamente sapeva il risultato. Il dialogo che segue non andò come lo scrivo adesso, sessantaquattro anni dopo. Domande e risposte furono rigorosamente nel dialetto della Bassa veronese dove Sanguinetto si trova.
— Signor «Biii», com’è finita a Roma? «Siamo campioni del mondo, Giulietto, ma è stata dura».
— Con che risultato? «2-1 dopo i supplementari. Avevano segnato per primi loro, i cecoslovacchi».
— Dei nostri chi ha segnato? «Orsi il pareggio e Schiavio la vittoria».
— Siamo campioni del mondo per merito di Schiavio? «Proprio così. Carosio ha detto: gol di destro, imparabile, su passaggio di Guaita».
Il caposquadra ordinò «avanti, marsc!» e da quel momento, fino al «rompete le righe!», non fui più un balilla che tornava dal saggio ginnico, ma soltanto un ragazzino felice. Aveva segnato Schiavio, Angelo Schiavio, il mio idolo, e sapevo di aver sognato (giuro anche adesso sulla verità di questo sogno) che fosse proprio lui, con un suo gol, a farci
diventare campioni del mondo.
Le parole di Carosio: Schiavio, gol di destro, imparabile su passaggio di Guaita. Una volta, quando avevo ancora meno anni di quel 10 giugno 1934, mi avevano portato a Bologna nello stadio che si chiamava Littoriale. Schiavio era il centravanti del Bologna e fece cinque (o addirittura sei?) gol contro la Pro Vercelli. E così, ieri come oggi, che un calciatore ti entra nel cuore e nell’immaginazione: lo pensi, ti senti lui se giochi una partita nei campi con le giacche e i maglioncini arrotolati a far da porte. La mia identificazione con Schiavio rimase, però, segreta. Nessuno mi chiamava con quel glorioso nome. Non ebbi i riconoscimenti del barbiere Tonino B. detto Meazza, di Bepi C. detto Orsi e del mio fraterno amico Domenico S. detto Borel. Nella squadretta di cui facevo parte, la B.S.A. (sigla dei tre fondatori Bruno, Silvano, Angelo), io, che mancino non sono, avevo la tessera numero 11 di ala sinistra.
Non ho molti altri ricordi del 10 giugno 1934. Seppi che Schiavio, esausto, era stato spostato all’ala destra e da quella posizione aveva segnato. Quando compì ottant’anni (era nato nel 1905 ed è morto nel 1990), in un’intervista dichiarò: «Riuscii a battere forte, in mezza girata. Un tiro estremamente preciso, hanno sempre detto: a fil di palo. No, un tiro d’istinto, cieco. Per me, la porta poteva essere lontana, dopo Villa Glori. Ho tirato, e basta».
Scrivo questi ricordi nelle ore che seguono la conclusione del Mondiale conquistato dalla Francia. Per un mese la televisione ci ha mostrato tutto: i gol, le vittorie, le sconfitte, le ebbrezze, le lacrime, gli errori, le violenze, le paure, gli abbracci. Tutto è stato ripreso in diretta, ripetuto alla moviola, commentato, processato. Un archivio elettronico è già pronto per garantire al futuro ogni minuto, ogni secondo di quanto è accaduto. Forse scrivo del 10 giugno 1934 anche per reagire a tutto questo. Di quel giorno remoto restano, infatti, rare fotografie come quella del commissario unico Vittorio Pozzo portato in trionfo dai suoi giocatori. E restano vecchi giornali, qualche buio spezzone del cinegiornale Luce.
Può quasi sembrare una favola la storia di un paese con tre radio e di un ragazzino che voleva sapere il risultato della finale. Ma favola non è. L’essere diventati campioni del mondo non incrinò il solito, tranquillo silenzio delle strade, la sera scorreva secondo le abitudini delle sere d’estate: seduto davanti alla porta di casa, aspettai l’apparire del lume a carburo che segnalava ravvicinarsi del bianco trabiccolo del gelataio.
Non ci sono veli di nostalgia in queste parole se non per le tante assenze che i ricordi richiamano con la sommessa voce della distanza. Potrei fare l’appello, se volessi: nomi, cognomi, nomignoli. Sarebbe un tentar di vincere sull’invincibile fluire del tempo. Vecchio giornalista quale sono, so che è già un grande premio essere qui, da sopravvissuto, a scavare nell’infinito della memoria. Come se la memoria fosse la terra dei campi, dell’orto, dei sentieri, che accolsero i miei giochi e i miei primi sogni.
di Giulio Nascimbeni – Corriere della Sera del 31 luglio 1998