CALCIO E CINEMA. ORMAI L’EVERGREEN “L’ALLENATORE NEL PALLONE”
L’importanza nella vita è avere un buon modello. Quello di Oronzo Canà, il vulcanico e pittoresco mister interpretato da Lino Banfi ne L’allenatore nel pallone (regia di Sergio Martino), è Nils Liedholm. Evidentemente ha un suo peso l’anno di realizzazione della pellicola, il 1984. La Roma, guidata dallo svedese, è reduce dal biennio più importante della propria storia, con la vittoria in campionato e la sconfitta in finale nella Coppa dei Campioni conquistata dal Liverpool.
Il problema è che difficilmente si potrebbero immaginare due persone tra loro più agli antipodi del Barone e della “Iena del Tavoliere”, il soprannome con cui è noto il protagonista del film. Del resto è la stessa moglie, Mara Canà, nella commedia all’italiana i nomi dicono tutto, a sottolineare come il marito, tarantolato com’è in ogni occasione, nulla abbia del self-control del nordico. Ai difetti andrebbe aggiunta anche l’immodestia, frutto più di un’ansia di riscatto che di un tratto caratteriale.
Banfi è indubbiamente una parodia di Oronzo Pugliese, una declinazione del “Mago dei poveri”, come amava farsi chiamare, alludendo a Helenio Herrera, l’uomo nato a Turi (Bari), che fece molto bene alla Roma e che usava non di rado le espressioni gergali del suo dialetto per esprimere al meglio la propria filosofia di gioco, impastandola con la saggezza popolare.
Le origini meridionali di Canà sono un problema per la Longobarda, squadra inventata dalla fantasia degli sceneggiatori, nella quale si trovano radicati tutti i vizi tipici e gli umori viscerali dei club di provincia.
Canà viene assunto a sorpresa dalla società, appena approdata in Serie A. Per lui, è l’occasione della vita. Ecco perché, durante il viaggio in treno che lo porta a destinazione, non fa che guardare la foto di Liedholm, quasi fosse un santino dal quale trarre ispirazione, anche se dichiarerà presto di sentirsi solo in parte debitore di quelle teorie, innovate con concezioni più fantasiose: «Zona, ragnatela, fasce laterali che devono “correre”, passaggi corti e pressing, più un pizzico di farina del mio sacco, che adesso non vi sto a dire, perché è un segreto, diciamo».
L’importante è abiurare il Catenaccio, tradizionale ancora di salvezza delle pericolanti; sarebbe evitabile soprattutto con la «panchina lunga», autentica ossessione personale più che un obiettivo, ovviamente non raggiungibile da un piccolo club in evidenti ristrettezze economiche. La rosa è molto poco competitiva in alcuni elementi, sebbene vanti in organico il brasiliano Aristoteles, che fa il verso alla fama del vero Socrates (che, invece, chissà quale filosofo prese in giro nella sua vicenda in viola…).
Nella prima conferenza stampa, l’allenatore fa la figura del presuntuoso, stilando percentuali aritmeticamente non proprio perfette, ma che rendono bene il senso di autostima del personaggio: all’ 80% la Longobarda finirà a metà classifica e al 3,5% in zona-Uefa. Strepitose sono le credenziali per lo scudetto: 0,07%. C’è da rimpiangere che nessuno nel campionato reale sia mai stato capace di avventurarsi in un simile vaticinio.
Anche chi non ha visto il film (la cui fama si è accresciuta nel tempo) ha sentito parlare della B-Zona, la grande invenzione su cui si fonda l’impalcatura tattica di Canà, nata per differenziarsi dai moduli similari più famosi, da lui illustrati cosi alla squadra durante il ritiro estivo: «Il Barone Liedholm ha usato la zona lenta. Il famoso Eriksson ha usato – buon per lui – la zona velocissima, mentre Bearzot, per esempio, ha usato la zona mista, che scherzosamente da noi viene chiamata la “zona pipa”. Io, invece, ho cercato di fare una zona un po’ diversa».
All’inizio, la B-Zona si comporta da promessa letterale, è la via più veloce per finire nella cadetteria. Già l’esordio è amaro, con la sconfitta per 5-1 subita contro la Roma e aggravata dalle prese in giro di Chierico, Ancelotti. Pruzzo e Graziani (qui, però, Banfi si prende una spassosa rivincita, pronosticandogli una precoce caduta dei capelli). Dopo tre punti in sette giornate, l’allenatore è in piena contestazione. Per ottenere la riscossa, non lascia nulla d’intentato, com’è nel suo stile: Canà è un allenatore tuttofare, un manager ante-litteram che si occupa di ogni particolare, arriva a cantare la ninna nanna ad Aristoteles, colpito da saudade, pur di risollevarne il morale. Improvvisamente, arrivano risultati positivi.
La Longobarda infila 5 successi consecutivi (Sampdoria, Como, Ascoli, Torino, Avellino). L’euforia manda l’allenatore nel pallone; ai microfoni di Aldo Biscardi, si lascia andare a giudizi poco generosi nei confronti del suo dichiarato maestro, paragonando il proprio modulo a «una Jaguar» e quello di Liedholm a «un tram a cavallo». La risposta del campo è crudele: il Milan trafigge con 7 gol le alchimie tattiche inventate in una notte insonne da Canà. Il peggio deve ancora venire: nella nebbiosa Torino, la Longobarda perde 2-0 con la Juventus di Trapattoni e Canà, espulso, sarà squalificato per 8 giornate. Le sconfitte si susseguono a ritmo vertiginoso, nonostante invenzioni tra le più disparate per evitarle, dalla macumba con il pallone sottratto a Zico in un allenamento (ma il “Pelé bianco” mette a segno una quaterna), a un ingenuo tentativo di accomodamento della partita contro la Fiorentina di Giancarlo “Picchio” De Sisti, terminata 5-0 per i toscani (con battuta finale di Banfi a Fabrizio Maffei: «Questa volta io picchio De Sisti e lo dichiaro a tutta Italia. Io picchio De Sisti e gli spezzo pure la noce del capocollo»).
Miracolosamente, Canà riesce a salvarsi in extremis. Impresa doppia, visto come gli rema contro il presidente Borlotti (perché la A gli costa troppo), che offre all’allenatore un adeguamento del contratto purché lasci fuori Aristoteles nella sfida decisiva. Il tecnico abbozza e contro l’Atalanta schiera all’ala sinistra Crisantemo (un nome, una tristezza). Poi l’ingresso del sudamericano capovolge il risultato: permanenza in A ma esonero dell’allenatore. Poco male. Il dolore è riservato al momento del trionfo, quando Canà viene sollevato di peso dai tifosi e lancia un urlo da prendere alla lettera, come tradisce la sua smorfia di sofferenza: «Mi avete preso per un coglione!».