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IL BOMBER “ETERNO” MARASCHI IN UNA INTERVISTA DEL ’76 …

Intervista di Elio Domeniconi, Guerin Sportivo marzo 1976


GENOVA – Mario Maraschi rifiuta il necrologio. Non ha nessuna intenzione di scrivere le sue memorie come Silvio Pellico. «La storia della mia vita, — ridacchia, — la scriverò quando smetterò di giocare. E per il momento non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di andare in pensione. Sono solo un centravanti infortunato».

Il vecchio M.M. del calcio italiano stupisce tutti, a cominciare dal professore che l’ha operato. Sul campo di Bergamo dopo il crack, il medico sociale della Sampdoria, Andrea Capuzzo, aveva spiegato: «Si tratta della rottura sottocutanea del tendine d’Achille. Ci vorranno sei o sette mesi perché Maraschi possa ritrovare la piena efficienza atletica e un anno per rivederlo al livello di serie A. Se questo significa la fine della sua carriera? Guardate la carta di identità di Mario e fate voi. Certo tutto dipenderà dalla sua volontà, però se io fossi in lui ci andrei molto, ma molto cauto. Quando si rompono infatti questi tendini è segno che c’è un logoramento dei tessuti».

Logoramento da usura, perché Mario Maraschi gioca da una vita: vent’anni fa esatti lo troviamo a Lodi con la maglia gloriosa del Fanfulla: due anni a Vercelli, uno al Milan, tre alla Lazio, uno a Bologna, due a Vicenza, tre a Firenze, ancora due stagioni a Vicenza, un anno a Cagliari e da tre campionati alla Sampdoria. Doveva essere una semplice riserva, è stato invece il salvatore della Patria. L’anno scorso mister Corsini puntava soprattutto su Magistrelli e Prunecchi, pagati rispettivamente mezzo miliardo e quattrocento milioni. Ma i due presunti cannonieri, segnarono solo due gol a testa, e la Sampdoria si salvò con le prodezze del vecchio «bomber» costato venti milioni: sette gol, quasi tutti determinanti. Ma a La Margara dovette battagliare a lungo per farsi aumentare lo stipendio che sapeva tanto di pensione. Quest’anno, la prima vittoria della Sampdoria in campionato, contro il Como, porta la sua firma: un gol alla Maraschi, cioè favoloso. Si era infortunato anche contro il Bologna, sempre per i muscoli logori, ma si era subito ripreso. E l’allenatore Bersellini aveva confidato ai cronisti: «Non lo scrivete perché altrimenti mi pigliano per pazzo ma l’uomo-salvezza sarà Maraschi. Aspetto la primavera per lanciarlo dentro in pianta stabile. Vedrete che segnerà i gol decisivi».

Ma contro il Milan, a Bergamo, faceva molto freddo, dai monti arrivava un ventaccio carico di neve, e i muscoli di Maraschi che hanno bisogno di sole non hanno retto. Il professor Capuzzo, che pure era seduto accanto a Bersellini, non s’era nemmeno accorto dell’incidente.
Ha visto Maraschi avvicinarsi zoppicando verso la panchina e si è sentito dire: «Professore, mi sono rotto un tendine».
Maraschi intanto, rifiuta i crisantemi e dice: «Sono sempre della stessa idea. Altafini ha un anno esatto più di me, quindi io voglio giocare un anno più di lui. Siccome Altafini continua a giocare nella Juventus, sarò costretto a rimanere altri due anni nella Sampdoria, non voglio perdere il duello».
Campanini ha smesso, più vecchio di lui c’è rimasto solo Altafini. Sono del 1939 come lui Albertosi, Vieri e Burgnich, ma quelli sono portieri o difensori, e il paragone non vale.
Per aggiornarsi si è fatto crescere i baffi: «Ero scontento di veder sempre la stessa faccia, bisogna cambiare».
Gioca al calcio perché gli piace e giura che non si tratta di una vita agra.
«Tutti parlano di sacrifici per durare. Io di sacrifici non ne faccio. Mi piace mangiare, bere e vivaddio, fare l’amore».
Si è sposato piuttosto tardi, rispetto ai calciatori, si era fatto la fama di dongiovanni, un playboy irresistibile, anche per la carica di simpatia.
«Non sono mai stato un fanatico delle femmine, ma nemmeno mi sono tirato indietro. Sul campo rendevo e allora perché avrei dovuto rinunciare alle gioie del sesso? Mi è sempre piaciuto vivere, non ho fatto mai veri e propri sacrifici per affermarmi. Il pallone non è mai stato lo scopo primario della mia vita. Qual era questo scopo primario? L’ho già detto: vivere».
A Vicenza poi ha conosciuto Oriella e ha cambiato vita. E’ nato Alberto, che ora ha otto anni e sogna di diventare un figlio d’arte. E la moglie gli ha trasmesso pure la passione per l’antiquariato.

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Quand’è in vacanza, a Vicenza, va a fare il giro delle vecchie ville del Palladio per vedere se è rimasto qualcosa da comprare.Ma il suo hobby è un altro: l’ippica. Torna sempre a Firenze per sfidare alle Muline i giornalisti del driver Paloscia e li batte spesso e volentieri. Chi perde, paga la cena da Vincenzo Sabatini: ribollita e fiorentina gigante.
Immobile nel letto, rivede il flashback della sua vita: giorni belli e anche giorni tristi. Nella Sampdoria: lo scontro con Vavassori e le polemiche che ne sono seguite:
«Giuro che avrei dato una gamba a Vavassori per farlo tornare in campo e quando ha ricominciato a giocare nel Napoli gli avevo mandato un telegramma d’auguri da San Benedetto del Tronto, solo che il funzionario della Sampdoria che si era offerto di andare alle poste, si è dimenticato di spedirlo».
Il cazzotto al tifoso impertinente sul campo di Recco non è ancora dimenticato, c’è sempre un processo in corso: «Quel tifoso mi aveva dato del disonesto, non ci ho visto più».

La promozione con la Lazio, i passaggi-gol a Gigi Riva nel Cagliari, lo scudetto a Firenze (1969). Fu lì che cambiò ruolo: «Man mano che vanno avanti con gli anni, i giocatori arretrano — racconta — io ho fatto il contrario. Avevo cominciato come ala tornante, poi nel 1968 sono passato centravanti, visto che nella Fiorentina, Amarildo non segnava mai».
Di solito, ha messo in crisi i grossi difensori, e si è fatto fregare dalle mezze cartucce: «Un solo campione mi ha mandato in bianco, Bellugi».

Episodi da raccontare ne avrebbe molti, ma evita di scrivere adesso il memoriale, non vuole pensare al domani: «Ho investito in immobili e in terre, c’è l’attività di mia moglie, forse mi fermerò a Vicenza. Dicono che sono simpatico, comunicativo, potrei sfondare nelle pubbliche relazioni. Molti mi spingono a fare l’allenatore, dicono che sarei il tipo adatto, ma io non ci credo, preferirei fare lo scopritore di talenti. I giovani d’oggi, però, mi sembrano troppo presuntuosi, non hanno un briciolo d’umiltà. Forse perché hanno trovato tutto facile. Oggi appena uno fa mezzo gol diventa un personaggio. Ai miei tempi…».

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