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“SEMBRA IERI” (VOL. 53). QUANDO AVERE LA “PANTOFOLA D’ORO” ERA UNA GRAN COSA

DAL LIBRO “IL PALLONE AL TEMPO DI INTERNET”

Quanto era semplice quel calcio, quello che vide – negli anni cinquanta – l’innovazione di utilizzare la pelle di vitello per realizzare scarpini da calcio, nelle Marche, terra madre per le calzature. Si cominciò con la squadre dell’Ascoli, ma si finì anche a Boniperti e Sivori. Quasi per magia lo scarpino scomodo si trasformò in una calzatura morbida e leggera, e fu così che quelle scarpe diventarono la Pantofola d’Oro. Non abbiamo mai avuto la fortuna di possederne un paio. Non ce lo potevamo permettere per due motivi, per le scarse finanze giovanili e per gli altrettanto scarsi risultati da giocatore. Due aspetti in antitesi con lo sfoggiare una scarpa importante come la “Pantofola”. Un nostro caro amico di allora, invece, era un ottimo giocatore ed in più, come noi, l’estate la passava a lavorare. Trovò un posticino – da giugno a fine settembre – presso un negozio di articoli sportivi di Viterbo. Faceva il commesso, ma si trovava bene, perché gli era familiare tutto ciò che lo circondava, scarpette, palloni, magliette. Dopo un mese, quando aveva messo da parte la “paga” di quattro settimane, decise di investirne una parte nell’acquisto, a prezzo di fabbrica, proprio di quelle scarpe da gioco. Gli brillavano gli occhi quando ce le mostrava con orgoglio, appena tornato a casa con la “preziosa” scatola. Così come lo stesso orgoglio era palpabile quando scendeva in campo e indossava quelle scarpette che non tutti si potevano permettere. E’ come se la Pantofola d’Oro gli mettesse le ali e non certo per l’abbinamento cromatico – erano soltanto nere – ma per il fatto stesso che rappresentavano un piccolo, grande, traguardo raggiunto. Per quanto ci riguarda, continuammo a giocare le partite con gli amici indossando scarpette di bassa lega. Un piccolo salto di qualità riuscimmo a farlo un giorno in cui, negli spogliatoi dell’impianto sportivo dove “bivaccavamo” per tante ore, qualcuno si dimenticò un paio di scarpe. Niente di “prezioso”, ma sicuramente migliori delle nostre, tutte nere con dei bordi verdi e tacchetti in plastica dello stesso colore. Aspettammo qualche giorno, per capire se qualcuno venisse a cercarle: nessuno si presentò e allora, per una sorta di “uso capione”, pensammo di poterle fare nostre e ci giocammo finché non ci abbandonarono.

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