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“DIECI”. CLAUDIO CORTI, SAN MARTINO, IL TEAM SUDAFRICANO …

di Claudio Di Marco

Da giovane cronista – nel ’77 – mi presentai ai nastri di partenza di San Martino al Cimino per l’importante appuntamento annuale, una delle corse più importanti d’Italia, a livello dilettantistico. C’era addirittura Claudio Corti, con la sua fiammante maglia iridata conquistata al campionato del mondo dilettanti di San Cristobal pochi giorni prima. E fu così che quella che a noi “comuni mortali” appariva una salita impossibile, quella delle Colonie, per Corti fu quasi una passeggiata e il suo trionfo in mezzo a tanta gente fu anche il nostro giorno speciale, grazie al mio articolo pubblicato il giorno dopo su “Il Tempo”.

Titolone sul campione del mondo, che staccò tutti e rifilò più di cinque minuti di divario al secondo arrivato. Il logico coronamento di una fuga irresistibile. Prima di tagliare il traguardo. Prima della festa, sulla piazza completamente gremita, come sempre accadeva ogni anno a San Martino, nella giornata dedicata al compianto Salvatore Morucci. E quella volta celebrò l’affascinante maglia bianca con l’iride sul petto.

Forse non tutti lo ricordano, ma Corti fu anche ottimo corridore professionista, capace di affiancare grandi capitani come Argentin e Moser, ma pure di piazzare l’assolo vincente. E forse non tutti sanno che, nelle vesti di direttore sportivo, scoprì successivamente uno come Froome e fu consigliere attento del miglior Gianni Bugno.  

Era stato buon corridore, senza, però, lo squillo dei giorni indimenticabili, magari a livello internazionale, tra i professionisti. Una sorta di etichetta di cui, verso i trent’anni, si liberò finalmente. Ai Mondiali del 1984, sul circuito rovente di Barcellona, fu lui l’unico a buttarsi sulle tracce di Criquielion, mancando l’aggancio per soli quattordici secondi. dopo un inseguimento formidabile a quello che diventò il nuovo campione del mondo. 

Stabilì, inoltre, un particolare feeling con la maglia tricolore di campione italiano, aggiudicandosela più volte, anche in volata, soluzione per lui alquanto inconsueta. E chissà che, indossando quelle maglie, qualche volta non abbia ripensato a quel pomeriggio di San Martino al Cimino, quando lui stava sul palco delle premiazioni e la gente era tutta lì sotto, con gli occhi all’insù per guardarlo e ammirarlo.

Il Corti di oggi. Se ne è ricordato subito quando lo abbiamo contattato, qualche tempo fa. Lui adesso è un signore di mezza età che in qualche modo è rimasto nel mondo del ciclismo. Vive a Adro, un paesino a una trentina di chilometri da Bergamo, nella nota zona vinicola del Franciacorta. Ha ripreso dopo il Covid ad inforcare la bici e ad andare caccia. Conserva ancora gelosamente le sue agende di una volta, dove annotava di tutto, anche gli allenamenti che svolgeva.

C’è anche una pagina dedicata a San Martino al Cimino e un cognome, Trombetta, che lo contattò più volte, fino a convincerlo a correre il tradizionale Gran premio. Non era assolutamente nei suoi programmi. Dopo la corsa iridata di San Cristobal ci aveva messo due giorni, tra aerei e altri spostamenti vari a tornare a casa. Poi era stato sommerso da interviste a casa dei suoi genitori e dagli abbracci dei suoi paesani, ai quali aveva promesso di correre una kermesse organizzata in suo onore una decina di giorni dopo. Non si era praticamente più allenato, ma accettò, in extremis, l’invito di Trombetta e arrivò a San Martino al Cimino insieme alla sua fidanzata, che diventerà poi sua moglie e gli regalerà tre figli. Due femmine e un maschio, Marco, che correrà anche lui in bici, con un paio di anni di professionismo. Marco gli somiglia molto, anche se ha una barba che il padre non ha mai avuto. Ha studiato Scienze delle Attività Motorie e Sportive e si è specializzato nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione e della nutrizione, con particolare influenza nel mondo dello sport.

Tornando a quel weekend nella Tuscia, Claudio alloggiò presso il locale albergo, che in quei tempi andava per la maggiore. Quasi si schernisce un po’ a dirlo, ma gli fa anche piacere rivelare che quella fu la prima volta in cui lui e la fidanzata dormirono insieme, fermandosi pure la notte dopo la corsa.

Io e gli altri lo vedemmo sfrecciare come un razzo, ma solo oggi vengo a sapere che Claudio corse l’ultimo tratto, da Viterbo a San Martino al Cimino, con i crampi, proprio perché non si era allenato. La semplicità dei suoi racconti è quella che mi piace di più, come gran parte di quelli dei favolosi Anni Settanta.

Parla con un pizzico di orgoglio anche di quello che è riuscito – successivamente – a fare da manager, in un ambiente dove, se si esce una volta, magari per sponsor che abbandonano, è praticamente impossibile rientrare. Lui c’è rientrato più di una volta e se la Saeco non avesse lasciato l’attività internazionale per motivi aziendali, sarebbe durato, probabilmente, per un periodo record. Rientrò con una società sudafricana e tra gli impegni che aveva assunto, c’era quello di andare a disputare delle corse in Sudafrica, dove scoprì Froome, che portò in Italia e che aiutò a superare i primi due anni alquanto difficili, prima di diventare il corridore vincente quale è stato.

Chiaramente c’è anche lui, più volte riportato, in una delle agende di Claudio, davvero un cimelio per gli appassionati come noi di storia dello sport e di vicende del passato, come quella di quel giorno – e di quell’articolo – a San Martino al Cimino.

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